Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Così parlò il nano da giardiano è un libro che colpisce al cuore sin dalla copertina. E' la storia di un gruppo di gerbilli che devono migrare da Gerbido Vecchio al Gerbido Nuovo tanto decantato dal nano Gongolo. E' così che inizia un favola ironica e vagamente surreale, dove un'improbabile comitiva di gerbilli con nomi bizzarri, nani da giardino e uno spaventapasseri depresso vanno disperatamente alla ricerca di un'isola felice. «E Gongolo? Gongolo pianse tutte le sue lacrime, dato che si trattava di una morte annunciata. Una delle più abominevoli, perché sarebbe stato caricato su un camion della spazzatura e poi scaraventato in una discarica. Oppure - sciagura altrettanto terribile - sarebbe stato rapito da un commando dell' FLNG ( Fronte per la Liberazione dei Nani da Giardino), un movimento terroristico internazionale, purtroppo in rapida espansione. Un movimento che afferma di voler liberare i nani e invece li strappa con violenza al loro habitat e poi li abbandona in boschi sperduti e inaccessibili. I nani da giardino (caso mai qualcuno non lo ricordasse) sono molto sensibili. I nani da giardino, anche se non sembra, sono creature delicate». Si legge tutto d'un fiato in una bella serata invernale! OGGERO MARGHERITA COSI' PARLO' IL NANO DA GIARDINO EINAUDI
Attraverso Le avventure di Sebastian Dangerfield, J.P. Donleavy ci racconta con Ginger Man lo sbandamento di un uomo, e di una generazione, nell’Irlanda povera del dopoguerra. Sebastian è un giovane americano, a Dublino per studiare giurisprudenza al Trinity College, cosa che non farà mai. Vero mascalzone, di quelli che appartengono a qualsiasi età e paese, Sebastian se ne infischia delle responsabilità, della moglie e della figlia piccola: perennemente ubriaco, raccatta soldi dove capita, passa le sue giornate tra i pub e i marciapiedi di Dublino, scazzottando appena può e seducendo senza ritegno qualsiasi donna gli capiti a tiro. Egoista, perditempo, oltraggioso ma disgraziatamente affascinante e carismatico, è un’antieroe al tempo stesso comico e disperato, che rifugge con metodo la quotidianità della vita comune. Il suo vittimismo è esilarante: impotente di fronte ai debiti e alla propria inconcludenza, che gli preclude tutti i lussi ai quali si sente destinato, Sebastian è capace di incolpare il mondo della sua sfortuna, e inveisce contro tutto e contro tutti, con violenza e con ironia, e anche con il fascino del suo perfetto accento aristocratico. Talvolta, però, il corso della sua degradazione si interrompe, e Sebastian regala per un attimo tocchi di poesia, sentimentalismi rivolti al cielo, per invocare un risvolto di fortuna, ma per lo più usati come strumento di seduzione per le sue avventure, sempre senza rimorso. E la corsa per Dublino riprende, con un’alzata di spalle e una bevuta. Quella di J.P. Donleavy è una narrazione che incalza, una prosa senza regole, che alterna continuamente e inaspettatamente la prima e la terza persona, con un risultato che sorprende ad ogni pagina. Pubblicato nel 1955 e subito censurato perché giudicato osceno e pornografico, Ginger Man è una felice riproposta di Neri Pozza nella nuova collana Bloom. Il titolo prende origine dal racconto per bambini The Gingerbread Man, che recita:
"Run, run, as fast as you can; you can't catch me I'm the gingerbread man."
Perfetto per Sebastian, che nel libro fugge continuamente, dai creditori, dalla polizia, dalle donne sedotte e abbandonate, da se stesso e dal mondo. Ginger Man ci regala il magnifico ritratto del vero furfante, che finisce per risultare al lettore irresistibilmente simpatico, e difficile da dimenticare.
Perchè i pesci non affoghino narra con realismo, ironia e schietto sarcasmo la vicenda di 12 americani scomparsi in Birmania. Tutto inizia con la morte di Bibi Chen un'antiquaria di origini cinesi che vive a San Francisco e viene uccisa nel suo negozio. Bibi vede tutto, compreso il proprio funerale e i dodici amici che avrebbe dovuto guidare in un viaggio in Cina e in Birmania, organizzato a scopo culturale. E' lei l'io narrante post-mortem del libro che accompagna i lettori e il gruppo dei 12 americani attraverso il magico e tutt'altro che benigno mondo della Birmania. I dodici partecipanti alla spedizione, una volta morta la capogruppo Bibi, decidono di partire ugualmente; subito il programma steso con tanta cura da Bibi viene stravolto e modificato e porta i nostri "eroi" americani in una Birmania inaspettata, pericolosa che li inghiotte nella foresta pluviale. Costretti a lasciare la Cina prima del previsto, a causa della poca confidenza con le usanze locali, 11 dei nostri 12 " eroi" partono per una gita sul lago e spariscono nel nulla sequestrati da una tribù Karen. L'autrice Amy Tan indaga ottimamente il campionario degli " americani medi": il playboy onesto, l'ingenua attivista dei diritti umani, l'ipocondriaca, l'adolescente figlio di genitori separati e il divo della TV [il miglior personaggio del libro a mio parere] e tesse un romanzo avvincente che, sotto l'apparente bonomia, non risparmia nessuno, né l'autoritarismo dei regimi illiberali né l'individualismo narcisistico del nostro mondo. Fa riflettere poi la scelta del titolo: " Un uomo pio spiegò ai suoi discepoli: Togliere la vita è un'azione malvagia, salvare una vita è un'azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. 'Non abbiate paura' dico loro. 'Vi ho salvato impedendo che affogaste.' Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male, porto i pesci morti al mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci." (Anonimo) PERCHE' I PESCI NON AFFOGHINO TAN AMY FELTRINELLI
Nelle Lettere dalla Kirghisia, Silvano Agosti racconta la sua visita in un paese straordinario “ dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un'utopia, ma un bene reale e comune”. Nel paese di Kirghisia tutti lavorano solo 3 ore al giorno: il resto del tempo è dedicato a se stessi, all’amore, alla famiglia, ai figli, alla vita insomma. Si lavora meglio, non ci si ammala di ansia e stress, si è sereni e realizzati e quindi più produttivi. Gli anziani hanno ingresso privilegiato e gratuito a cinema e teatri, non pagano i trasporti, e inoltre hanno piccoli appezzamenti di terreno da curare. I bambini non stanno seduti in aule chiuse, ma giocano nei parchi, e imparano in maniera naturale, e duratura, perché lo desiderano. E chi vuole fare l’amore, porta in bella vista un piccolo fiore azzurro: così l’amore non genera ipocrisia, incomprensioni e imbarazzi. Non ci sono guerre, né armi: non ci sono politici falsi e strapagati ma opere di volontariato: non c’è pubblicità ma informazione. Nel paese di Kirghisia non c’è bisogno di scrivere la costituzione perché tutti la sanno a memoria. E’ composta di una sola frase: " Al centro di ogni iniziativa, l'attenzione dello Stato e dei cittadini va innanzitutto all'essere umano”. Dal paese di Kirghisia Silvano Agosti invia lettere di una semplicità disarmante e stupefacente, che ci mettono di fronte all’assurdità del nostro vivere, viziato dalla corsa contro il tempo, e soffocato dai ritmi del lavoro che ci priva della nostra esistenza e della nostra umanità. Lettere dalla Kirghisia è un sogno, meraviglioso perché elementare, di chi ha capito che l’essere umano è il più prezioso dei capolavori. Su questa consapevolezza si può iniziare a costruire un mondo migliore, a misura d’uomo. Con rispetto e tanto buon senso. Un libro di poche pagine, che si legge in un soffio e per giorni riempie il cuore di immaginazione e speranza.
Trent’anni di vita a Brooklyn. Nei primi anni 70 in Dean Street si fa vita di strada e di ghetto, in una comunità di afroamericani e portoricani. Dylan Ebdus è l’unico bambino bianco, figlio di genitori hippy e un po’ visionari, che hanno scelto il trasferimento nel quartiere nero come un manifesto della propria cultura evoluta. Per Dylan l’infanzia tra i ragazzi di Dean Street è difficile: le tensioni razziali e gli scontri in strada, con i “cappi” e i furti da parte dei coetanei neri, sono parte della sua quotidianità, insieme alla paura e all’isolamento di chi è diverso, provocato, minacciato dal gruppo. L’incontro con il ragazzino nero Mingus Rude segna l’inizio di un’amicizia, forte e salda, che nasce sulle solitudini e sui sogni di due bambini così diversi ma con storie familiari simili. Dylan e Mingus vivono insieme gli anni della scuola e delle prime esperienze: i giochi sul marciapiede e i primi segnali di delinquenza, la scoperta del sesso, la vita alle superiori, con la sua cultura di violenza, estorsioni e droga, che si diffonde contagiando tutto e tutti. Attraverso l’amicizia di Dylan e Mingus, La fortezza della solitudine traccia il percorso di una generazione che non conosce solo contrasti sociali e isolamenti umani, ma anche segnali di grande creatività, come affermazione di identità e di espressione: i graffiti, i “tag” con i quali i ragazzi lasciano il loro marchio sul territorio; la black music, che racconta la loro vita in un’ideale colonna sonora, e che è la grande protagonista del romanzo; i fumetti Marvel, e il mito dei supereroi, il desiderio di potenza ma anche di redenzione, che diventa ossessione di superpoteri, e sogno di uno “ spazio intermedio”, un “ cono di bianco” cui appartenere (il titolo si riferisce infatti al rifugio segreto di Superman) . A partire dai due protagonisti, sono tanti i personaggi che affollano Dean Street ne La fortezza della solitudine: per alcuni ci sarà il college, e la prospettiva di un futuro, per altri il carcere, approdo di una vita di contrapposizioni dal destino già segnato. Un romanzo metropolitano intenso e complesso, e un grande affresco umano, che ci racconta con forza e crudeltà le contraddizioni e i conflitti sociali di trent’anni di storia americana.
Che Michel Faber fosse un tipo eccentrico lo si era capito da tempo. La sua è una vita fuori dagli schemi, lassù nel nord della Scozia, dove vive e scrive in una stazione ferroviaria, lontano da tutto. E fuori dagli schemi è la sua produzione, originale e imprevedibile: Michel Faber non si ripete mai, e ogni sua uscita è una provocazione creativa. Dalla Londra di fine Ottocento de Il petalo cremisi e il bianco, alla storia di fantascienza dai tratti ripugnanti di Sotto la pelle, che toglie il respiro e inchioda alle pagine, al castello di A voce nuda, dove un gruppo di coristi affronta gli incubi e i fantasmi della propria vita: progetti sempre diversi, per uno scrittore che ha il dono di sorprendere con il suo estro folle, moderno e pungente. La nuova sfida è I gemelli Fahrenheit, una raccolta di 17 racconti: si tratta di storie brevi, capaci di raccontare l’emozione umana con ferocia e con ironia, sempre al di fuori della normalità. Molti di questi sono incubi visionari, di chi vive ai margini della quotidianità sociale e familiare, in una solitudine intrisa di delirio e di disagio. Una giovane ex tossicodipendente si riavvicina al figlio, cercando un rapporto mai esistito, ma cresciuto nel profondo del cuore e delle viscere: è la storia di Nuotatori veri. La vita nei sobborghi, violenti e pericolosi, viene resa accettabile con finte finestre che proiettano vita campestre e idilliaca all’interno di una anonima casa di periferia, in un sogno post – moderno di feroce squallore in Gli occhi dell’anima. In Un gesto di poco conto, una madre, nel totale disagio del suo nuovo ruolo, nel quale si sente sprofondare e annullare, uccide il suo neonato, per tentare di recuperare i pezzi e i silenzi della sua fragilità, in una tragica e disperata illusione di normalità. Il racconto che dà il titolo alla raccolta si distingue dalle atmosfere forti delle altre storie per immergere il lettore in una dimensione onirica e silenziosa: un’avventura tra i ghiacci, ai confini delle terre conosciute. I gemelli Fahrenheit vivono qui la loro infanzia, impellicciati e infagottati in un paesaggio di ghiacci, su slitte trainate da cani, che guidano attraverso il biancore ma anche attraverso l’esperienza adulta della morte. I l nuovo libro di Michel Faber è un’opera degna di lui, provocatoria, eccentrica e complessa, non sempre di facile lettura e interpretazione, che lascia sgomenti per la sua pungente e commovente capacità di dar forma alla fragilità umana.
È innegabile che Sandrone Dazieri, oltre ad aver scritto libri in serie (la saga del “Gorilla”, per intenderci), meriti lettori in serie: io sono indiscutibilmente una di questi. È STATO UN ATTIMO, però, esce (magari temporaneamente) dalla serie, e fa sperare bene, molto bene. E, soprattutto, può essere gustato appieno anche senza aver (ancora) letto gli altri quattro romanzi già pubblicati. Ho molto apprezzato che ci siano alcuni dei personaggi di contorno dei libri precedenti (l’avvocato Mirko Bastoni, la fidanzata del Gorilla Valentina, l’Elefante…), quasi che il lettore affezionato non se ne abbia a male, e non si senta abbandonato alla solitudine, abituato come è agli strampalati personaggi che di solito gravitano intorno al Gorilla. La vicenda è costruita ricorrendo a un escamotage letterario caro a Dazieri, e molto ben orchestrato, intorno a una scissione schizoide, non più soltanto tra due personalità, ma tra due archi temporali tenuti separati dall’amnesia del personaggio principale: Santo Denti (“ un uomo con un nome da cartellino di reliquia”), e, contemporaneamente, tra due tipologie umane agli antipodi (il pusher di piccolo taglio, Santo “Trafficante”, e il pubblicitario di successo con casa in centro, fidanzata bella e ricca, SUV, beneficenza, e amante nascosta e da tener nascosta, soprattutto). Il tutto all’interno di una storia che, nell’arco di una sola settimana, deve svelare il mistero legato tanto all’amnesia, quanto all’uccisione del presidente della grande agenzia pubblicitaria, della quale uccisione, ovviamente, Santo è più che sospettato. E se non fosse sufficiente, la fuga da un misterioso attentatore che vuol fargli saltare la testa… Da milanese, mi ha sorpreso e divertito assistere allo stupore e all’amarezza del protagonista, che si vede intorno cose nuove, dopo quattordici anni di buco da amnesia, vissuti con uno stile all’opposto rispetto alla sua memoria: i quartieri ghetto di Milano, le eterne impalcature tappezzate di enormi pubblicità, i nuovi nomi di vecchie banche a sostituire negozi storici della città, ma anche il dominio incontrastato di cellulari (“ impara: sms”), internet a tappeto (“ impara: google”), l’euro, la guerra per la democrazia e la libertà in Iraq, e così via. Da non perdere. DAZIERI SANDRONE E' STATO UN ATTIMO MONDADORI
Una tempesta di neve si scatena vicino a Tokyo, e un aereo è costretto a rimanere fermo per una notte intera in aeroporto. Viene trovata una sistemazione in albergo per quasi tutti i passeggeri, ma tredici rimangono senza un letto, e devono attendere l’alba e il volo seguente accampati nella sala partenze. Poche ore, impreviste e indesiderate, separano i tredici passeggeri dalla partenza, e dal ritorno alla normalità: la sosta forzata in compagnia di estranei, diversissimi tra loro, non è gradita a nessuno e il nervosismo cresce. Qualcuno lancia un’idea, di antico sapore ed eterna magia: raccontarsi a turno delle storie per ingannare il tempo e il buio della notte. E’ questa la cornice del libro Tokyo Cancelled del giovane Rana Dasgupta, un Decameron moderno, multirazziale e multiculturale. Dal “non-luogo” rappresentato dall’aeroporto, le 13 storie attraversano tempi, paesi e tradizioni diverse, dove oriente e occidente si susseguono, si alternano e talvolta si intrecciano, in un flusso di fantasia e immaginazione. Così la spiritualità visionaria dell’oriente prende forma in alcune favole che hanno il sapore della parabola, come nella prima incantevole storia del mercante di vesti, o nella vicenda, misteriosa e fantastica, del miliardario indiano che non conosce il sollievo del sonno. L’occidente si anima degli incubi dell’indifferenza e del malessere individuale moderno: il business dell’età contemporanea è rappresentato dal raccogliere e rivendere i ricordi alla gente, che per cause ignote li sta inesorabilmente perdendo: è questo il lavoro del giovane Thomas, in una Londra post-moderna che annulla le identità. Misticismo, magia, incontro tra reale e surreale sono la chiave di lettura di molti dei tredici racconti: dove si incontrano cartografi tedeschi e mappe capaci di imprigionare, donne mute che parlano con la mente, biscotti che hanno il potere di trasformare le persone, dando vita a sogni di capitalismo autodistruttivi, bambole oggetto di desiderio erotico, che conducono alla perdizione e all’isolamento, Parigi colpita dal vaiolo in una storia fantastica di amicizia, immortalità e umanità. All’alba i tredici viaggiatori-narratori si ricompongono, valigie e carte d’imbarco alla mano: c’è calore, ma anche un po’ di disagio, al risveglio da un torpore che li ha portati a stringersi un po’ troppo, ad avvicinarsi gli uni agli altri grazie alla parola e alla fantasia. La normalità si frappone nuovamente tra di loro, ognuno riacquista la propria maschera di estraneo, e si confonde tra le decine di passeggeri all’imbarco, arricchito di sogni e parole. Al lettore Tokyo Cancelled lascia il gusto di qualcosa di antico ma al tempo stesso modernissimo, una sperimentazione narrativa che fonde culture diverse, e fa incontrare tradizioni e mondi lontani nel piacere comune della novella. Originale e globale.
Underworld può essere forse definito, con qualche probabilità di successo, un romanzo epico, un racconto che racchiude l' epos di un popolo filtrandone artificialmente l'essenza, lasciandola trasudare copiosa dalla mistica della parola scritta; Underworld è un classico nonostante sia uscito soltanto nel 1997 ed il suo autore, l'americano di origini molisane Don de Lillo, fosse all'epoca semi sconosciuto nel nostro paese; Underworld è il racconto di cinquant'anni di storia americana, ma ne è come un filtro distorto, lontano dall'agiografia ufficiale, pronto a rovesciare il sogno nel suo contrario. Dal “ Trionfo della Morte” del Polo Grounds di New York, teatro nel 1951 di un mitico scontro tra Giants e Dodgers, le due squadre di baseball di New York, una vicenda corale, multisfaccettata e raccontata attraverso un continuo carnevale linguistico, si snoda seguendo la scia della pallina colpita dalla mazza del grande Bobby Thompson, in occasione del leggendario home run che decide la partita. Un viaggio interminabile attraverso l'America profonda, dalla postatomica desolazione del Bronx, infestato dalle bande giovanili e divenuto ormai polo d'attrazione di un turismo dell'orrido e dei rifiuti, alle autostrade che percorrono e tagliano il continente, dove un misterioso Killer solitario uccide chi gli passa accanto in automobile. Personaggi partoriti dalla fantasia di Don de Lillo, si muovono accanto a uomini che hanno fatto la storia degli States, da J. Edgar Hoover a Lenny Bruce, passando per Frank Sinatra; seguendo il tragitto schizofrenico compiuto dalla pallina feticcio, ci si scontra con passioni e depravazioni, sogni e tristi prese di coscienza, con sullo sfondo un destino collettivo che si staglia su tonnellate di rifiuti, fine ultimo delle fatiche del genere umano. Capolavoro della letteratura postmoderna americana, Underworld è un romanzo fiume incapace di deludere, interminabile e commovente nel suo delirante procedere per illuminazioni, flashback, invenzioni. Una scarica elettrica per l'America di fine millennio, costretta a specchiarsi in un libro che ne mette a nudo lo scheletro.
Il romanzo di una città, o il romanzo di un autore che si racconta attraverso la propria città, quasi trasfigurato in essa, si apre con l’eterno tema del doppio, rimarcato e sottolineato: il grande Ohran Pamuk, recente premio Nobel per la letteratura, scrittore osteggiato dal potere per la sua vena critica nei confronti delle istituzioni del suo paese, racconta con magica leggerezza il suo sogno infantile, la convinzione che dall’altra parte della città “vivesse un altro Ohran, del tutto simile a me, un mio gemello, uno completamente uguale a me, in una strada di Istanbul, in un’altra casa simile alla nostra”. Il doppio che si affaccia in questo incipit, riflette la duplicità, o la frattura, che caratterizza l’identità turca, simboleggiata dalla sua capitale: la metropoli divisa dal Bosforo d’Argento, eternamente sospesa tra una propensione all’Occidente, individuata fisicamente nella parte europea della città, e le sue radici asiatiche e islamiche, simboleggiate dai decadenti minareti che ne costuiscono la skyline. E’ quasi un gioco di specchi deformanti, che non rimandano mai indietro tutto ciò che ricevono, ma ciononostante ne mantengono intatti i lineamenti, soltanto un po’ stiracchiati o compressi. Insieme al tema del doppio, dell’identità non risolta, si affaccia fin da subito, e coprirà l’intero dipanarsi del racconto, il sottotraccia dello Spleen di Istanbul: un disagio molto diverso da quello sofferto in altri luoghi; non è la noia un po’ snob degli esteti francesi, né la molla scatenante di una vita libera da Bohemien, né tanto meno l’origine ultima di tanti movimenti ribellisti e giovanilisti. Non siamo in Occidente, o almeno non del tutto, il malessere non esplode, ma tende piuttosto a concretizzarsi in una diffusa malinconia, una tristezza indefinita e romantica chiamata huzun, quasi cifra essenziale di una città e dei suoi abitanti. Nei café e nei ristoranti, nelle strade e nelle case, mentre lontano si ode lo stridere straziante della sirena di una nave, o quando si osserva dalla finestra il lento incedere delle vecchie signore in nero, accompagnate dal lugubre canto del muezzin, tutto è huzun. Le fotografie in bianco e nero, disseminate nelle pagine del romanzo, aiutano a raccontare questa realtà, quasi come se la parola scritta, pur con il suo straordinario potere evocativo, non fosse sufficiente a comprenderla tutta. Sembra di sentire cadere la pioggia sul Corno d’Oro, mentre lentamente ci sentiamo soggiogati dallo stesso fascino che da sempre coglie il viaggiatore occidentale al cospetto di Istanbul, quel misto di esotismo e familiarità che appare indecifrabile: negli sguardi delle persone, filtrati attraverso la lente deformata dell’arte di Pamuk, si coglie come il lutto per la fine di un mondo, mai realmente sostituito da un’identità nuova e risolta nei suoi conflitti, la morte lenta e dolorosa dell’Impero Ottomano, che per secoli era stato una delle massime potenze militari del mondo. E’ una civiltà che non finisce di morire, un fantasma che aleggia sospeso nelle vite degli uomini, che tormenta le anime e le rende ipersensibili, quasi portate al sentimento del dolore.
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