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 Piri piri , il cane cerca libri... di Matteo Ulrico Hoepli
 
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"Al di fuori del cane, il libro é il miglior amico dell'uomo. All’interno del cane c’é troppo buio per leggere.."

Groucho Marx (1890-1977)
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Valeria Surico (del 06/02/2007 @ 07:13:20, in Libri di narrativa, linkato 13208 volte)
Così parlò il nano da gairdino - Margherita OggeroCosì parlò il nano da giardiano è un libro che colpisce al cuore sin dalla copertina. E' la storia di un gruppo di gerbilli che devono migrare da Gerbido Vecchio al Gerbido Nuovo tanto decantato dal nano Gongolo. E' così che inizia un favola ironica e vagamente surreale, dove un'improbabile comitiva di gerbilli con nomi bizzarri, nani da giardino e uno spaventapasseri depresso vanno disperatamente alla ricerca di un'isola felice. «E Gongolo? Gongolo pianse tutte le sue lacrime, dato che si trattava di una morte annunciata. Una delle più abominevoli, perché sarebbe stato caricato su un camion della spazzatura e poi scaraventato in una discarica. Oppure - sciagura altrettanto terribile - sarebbe stato rapito da un commando dell'FLNG (Fronte per la Liberazione dei Nani da Giardino), un movimento terroristico internazionale, purtroppo in rapida espansione. Un movimento che afferma di voler liberare i nani e invece li strappa con violenza al loro habitat e poi li abbandona in boschi sperduti e inaccessibili. I nani da giardino (caso mai qualcuno non lo ricordasse) sono molto sensibili. I nani da giardino, anche se non sembra, sono creature delicate».

Si legge tutto d'un fiato in una bella serata invernale!



OGGERO MARGHERITA
COSI' PARLO' IL NANO DA GIARDINO
EINAUDI
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Di Francesca Cingoli (del 05/02/2007 @ 07:26:56, in Libri di narrativa, linkato 3364 volte)
Attraverso Le avventure di Sebastian Dangerfield, J.P. Donleavy ci racconta con Ginger Man lo sbandamento di un uomo, e di una generazione, nell’Irlanda povera del dopoguerra.
Sebastian è un giovane americano, a Dublino per studiare giurisprudenza al Trinity College, cosa che non farà mai.
Vero mascalzone, di quelli che appartengono a qualsiasi età e paese, Sebastian se ne infischia delle responsabilità, della moglie e della figlia piccola: perennemente ubriaco, raccatta soldi dove capita, passa le sue giornate tra i pub e i marciapiedi di Dublino, scazzottando appena può e seducendo senza ritegno qualsiasi donna gli capiti a tiro.
Egoista, perditempo, oltraggioso ma disgraziatamente affascinante e carismatico, è un’antieroe al tempo stesso comico e disperato, che rifugge con metodo la quotidianità della vita comune.
Il suo vittimismo è esilarante: impotente di fronte ai debiti e alla propria inconcludenza, che gli preclude tutti i lussi ai quali si sente destinato, Sebastian è capace di incolpare il mondo della sua sfortuna, e inveisce contro tutto e contro tutti, con violenza e con ironia, e anche con il fascino del suo perfetto accento aristocratico.
Talvolta, però, il corso della sua degradazione si interrompe, e Sebastian regala per un attimo tocchi di poesia, sentimentalismi rivolti al cielo, per invocare un risvolto di fortuna, ma per lo più usati come strumento di seduzione per le sue avventure, sempre senza rimorso. E la corsa per Dublino riprende, con un’alzata di spalle e una bevuta.
Quella di J.P. Donleavy è una narrazione che incalza, una prosa senza regole, che alterna continuamente e inaspettatamente la prima e la terza persona, con un risultato che sorprende ad ogni pagina.
Pubblicato nel 1955 e subito censurato perché giudicato osceno e pornografico, Ginger Man è una felice riproposta di Neri Pozza nella nuova collana Bloom.
Il titolo prende origine dal racconto per bambini The Gingerbread Man, che recita:

"Run, run, as fast as you can;
you can't catch me I'm the gingerbread man."

Perfetto per Sebastian, che nel libro fugge continuamente, dai creditori, dalla polizia, dalle donne sedotte e abbandonate, da se stesso e dal mondo.
Ginger Man ci regala il magnifico ritratto del vero furfante, che finisce per risultare al lettore irresistibilmente simpatico, e difficile da dimenticare.
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Di Roberto Seoni (del 02/02/2007 @ 09:08:10, in Eventi e Mostre, linkato 4141 volte)
Ieri pomeriggio la scrittrice inglese Lynda La Plante ha firmato alcune copie del suo ultimo romanzo, Dalia Rossa, alla libreria Hoepli. Affermata giallista, la signora La Plante ha un passato da attrice: ha intrapreso successivamente una fortunata carriera da sceneggiatrice e scrittrice, mettendosi in luce per le sue ambientazioni cariche di suspence e tensione. E' pubblicata in Italia da Garzanti. Dalia Nera, sua ultima fatica letteraria, è un giallo ambientato a Londra: un cadavere viene ritrovato a pezzi ed il delitto ricorda quello di Elizabeth Short a New York, l'omicidio della Dalia Nera. Il caso viene affidato ad Anna Travis, il sergente di polizia già protagonista di un altro romanzo di Lynda La Plante. Da non leggere quando si è a casa da soli, la notte...
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Di Valeria Surico (del 01/02/2007 @ 07:38:12, in Libri di narrativa, linkato 11012 volte)
Perchè i pesci non affoghino narra con realismo, ironia e schietto sarcasmo la vicenda di 12 americani scomparsi in Birmania.

Tutto inizia con la morte di Bibi Chen un'antiquaria di origini cinesi che vive a San Francisco e viene uccisa nel suo negozio. Bibi vede tutto, compreso il proprio funerale e i dodici amici che avrebbe dovuto guidare in un viaggio in Cina e in Birmania, organizzato a scopo culturale.
E' lei l'io narrante post-mortem del libro che accompagna i lettori e il gruppo dei 12 americani attraverso il magico e tutt'altro che benigno mondo della Birmania.

I dodici partecipanti alla spedizione, una volta morta la capogruppo Bibi, decidono di partire ugualmente; subito il programma steso con tanta cura da Bibi viene stravolto e modificato e porta i nostri "eroi" americani in una Birmania inaspettata, pericolosa che li inghiotte nella foresta pluviale.
Costretti a lasciare la Cina prima del previsto, a causa della poca confidenza con le usanze locali, 11 dei nostri 12 "eroi" partono per una gita sul lago e spariscono nel nulla sequestrati da una tribù Karen.

L'autrice Amy Tan indaga ottimamente il campionario degli "americani medi": il playboy onesto, l'ingenua attivista dei diritti umani, l'ipocondriaca, l'adolescente figlio di genitori separati e il divo della TV [il miglior personaggio del libro a mio parere] e tesse un romanzo avvincente che, sotto l'apparente bonomia, non risparmia nessuno, né l'autoritarismo dei regimi illiberali né l'individualismo narcisistico del nostro mondo.

Fa riflettere poi la scelta del titolo: "Un uomo pio spiegò ai suoi discepoli: Togliere la vita è un'azione malvagia, salvare una vita è un'azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. 'Non abbiate paura' dico loro. 'Vi ho salvato impedendo che affogaste.' Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male, porto i pesci morti al mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci." (Anonimo)

PERCHE' I PESCI NON AFFOGHINO
TAN AMY
FELTRINELLI
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Di Silvia Venuti (del 30/01/2007 @ 07:07:18, in Poesia, linkato 5992 volte)
Il giorno 25 gennaio 2007, alle ore 18, la Fondazione D’Ars-Oscar Signorini onlus ha organizzato, con il Patrocinio del Comune di Milano e in collaborazione con la Libreria Internazionale Hoepli, l’incontro con il poeta Luciano Erba che ha presentato la recente raccolta Remi in barca, Lo Specchio, Mondadori, 2006. Ha introdotto la serata Gio Ferri, poeta, saggista, grafico, autore di Assedio della poesia,1998; Inventa lengua, Marsilio,1999; Le Palais de Tokio, 2004; L’assassinio del poeta (vol. I, II), 2004-2005; e condirettore di “Testuale”.

Remi in barca raccoglie un primo gruppo di poesie, sotto il titolo Westminster, inedite o edite con varianti, dedicate all’attesa, quindi un secondo gruppo, dal titolo l’Altra metà che riprende i testi pubblicati presso San Marco dei Giustiniani e a conclusione una scelta di poesie giovanili inedite, intitolata In limine. Gio Ferri ha sottolineato come nei testi di Erba primeggi un’idea di dinamismo: ”La vita è veloce, in fuga perpetua, si passa da dimenticanza in dimenticanza, cancellando memorie: la poesia segue e precede la vita ma ne è anche il principio, il fondamento. La fuga non va al nulla ma, di fuga in fuga, procede verso una nuova metamorfosi: è un poema interminabile, inarrestabile.” Il titolo Remi in barca, non allude così ad una rinuncia ma ad un altro viaggio vissuto in un tempo di pausa, favorevole ai ricordi, con l’emozione trattenuta di chi guarda in silenzio. Gio Ferri ha evidenziato come il poeta, abbandonando certe ironie, amarezze, tipiche soprattutto della fase giovanile, documentata da In limine, abbia acquisito una nuova misura di maturità poetica e umana. La poesia di Erba è poesia minimale perché c’è, in essa, un ridursi ai minimi di percezione. Con il minimalismo, arte del cavare, avviene l’immersione nelle regioni del silenzio: il minimalismo diventa la primigenia semente del tutto dove, scavando l’abisso del nulla, si può misurare la propria capacità d’affrontare il rischio di vivere. Dopo la lettura da parte dell’autore di una scelta di poesie è seguito l’intervento di Stefano Agosti che ha sottolineato come sia evidente un rinnovamento nella poesia di Erba: le sue immagini si sono così rarefatte da raggiungere una totale sovradeterminazione degli oggetti, nel senso di un eccesso di pienezza vitale. Ogni oggetto è, cioè, sovradeterminato, presenta nodi di senso, di significazioni, di stratificazioni personali. Dopo la lettura di Scale: ” Scale / che non portano da nessuna parte / scale / che salgono soltanto per scendere / è difficile orientarsi / nei dintorni del nulla.” Marco Forti ha interpellato il poeta sul nulla, sottolineando come la sua poesia tuttavia apra, continuamente, nuove porte. Erba ha citato allora il senso del mistero: “L’idea del mistero è già un momento religioso e di umiltà, e io cerco subliminalmente di coglierlo attraverso la parola.”
Il pubblico che affollava la sala ha sottolineato con ripetuti applausi le letture e gli interventi. Erano presenti personaggi di spicco della cultura letteraria milanese.

Silvia Venuti
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Di Francesca Cingoli (del 29/01/2007 @ 07:20:50, in Libri di narrativa, linkato 119476 volte)
Nelle Lettere dalla Kirghisia, Silvano Agosti racconta la sua visita in un paese straordinario “dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un'utopia, ma un bene reale e comune”.
Nel paese di Kirghisia tutti lavorano solo 3 ore al giorno: il resto del tempo è dedicato a se stessi, all’amore, alla famiglia, ai figli, alla vita insomma. Si lavora meglio, non ci si ammala di ansia e stress, si è sereni e realizzati e quindi più produttivi.
Gli anziani hanno ingresso privilegiato e gratuito a cinema e teatri, non pagano i trasporti, e inoltre hanno piccoli appezzamenti di terreno da curare. I bambini non stanno seduti in aule chiuse, ma giocano nei parchi, e imparano in maniera naturale, e duratura, perché lo desiderano.
E chi vuole fare l’amore, porta in bella vista un piccolo fiore azzurro: così l’amore non genera ipocrisia, incomprensioni e imbarazzi.
Non ci sono guerre, né armi: non ci sono politici falsi e strapagati ma opere di volontariato: non c’è pubblicità ma informazione.
Nel paese di Kirghisia non c’è bisogno di scrivere la costituzione perché tutti la sanno a memoria. E’ composta di una sola frase: "Al centro di ogni iniziativa, l'attenzione dello Stato e dei cittadini va innanzitutto all'essere umano”.
Dal paese di Kirghisia Silvano Agosti invia lettere di una semplicità disarmante e stupefacente, che ci mettono di fronte all’assurdità del nostro vivere, viziato dalla corsa contro il tempo, e soffocato dai ritmi del lavoro che ci priva della nostra esistenza e della nostra umanità.
Lettere dalla Kirghisia è un sogno, meraviglioso perché elementare, di chi ha capito che l’essere umano è il più prezioso dei capolavori. Su questa consapevolezza si può iniziare a costruire un mondo migliore, a misura d’uomo.
Con rispetto e tanto buon senso.
Un libro di poche pagine, che si legge in un soffio e per giorni riempie il cuore di immaginazione e speranza.
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Di Nino Romeo (del 27/01/2007 @ 07:53:38, in Eventi e Mostre, linkato 14979 volte)
Buchenwald. Il bosco del silenzio


Dalle fotografie di Nino Romeo dei resti del campo di Buchenwald appaiono quasi come i reperti di un sito archeologico; i visitatori, come drappelli di turisti durante una visita a Pompei fuori stagione. Anticipando una visione che il progressivo ineluttabile allontanamento delle future generazioni dalle testimonianze dirette di quell’epoca storica potrebbe rendere sempre più probabile, l’azione espositiva sottolinea l’esigenza vitale di non spegnere in noi e nei nostri discendenti il bruciore vivo del dolore e della vergogna, con i quali l’olocausto ha marchiato una intera civiltà. A memoria di tutte le stragi di massa e pulizie etniche a cui ancora oggi siamo spettatori inermi, una politica internazionale incapace di intervenire nel vanificare le ragioni che le determinano.
“La dimensione di bosco è [...] quella che colpisce maggiormente a prima vista il visitatore dell’area nella quale si trova il campo di concentramento di Buchenwald. Il bosco si è ripreso gran parte di ciò che solo una cinquantina d’anni fa l’uomo aveva riordinato secondo un proprio disegno lucido e manageriale. Il bosco ha inghiottito buona parte del tracciato ferroviario che collegava il campo alla città vicina e al resto del paese e sul quale viaggiavano in vagoni piombati gli individui prescelti per finire in quel bosco. La regione nella quale il bosco si trova è, appunto, verde e serena. La città vicino alla quale fu costruito, Weimar, è luogo di testimonianza di grandi intelletti, che tuttora comunica, nella sua bellezza tranquilla e misurata, il trionfo della parte migliore dell’uomo. Proprio lì accanto, il teatro della parte peggiore.
A differenza di Auschwitz, luogo anche paesaggisticamente assai dissimile, che conserva un involucro preciso e strutture edificate in mattoni e muratura, oltre alle baracche degli internati, Buchenwald è più un’area nella quale proiettare il proprio immaginario del campo, attraverso ciò che ne rimane (il cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”), il piccolo edificio con le celle dove erano rinchiusi e torturati i prigionieri che si macchiavano di crimini particolari, l’ambulatorio degli esperimenti medici, le strutture destinate a caserme per gli ufficiali nazisti, la baracca superstite, prima smantellata e poi ricostruita, ma soprattutto attraverso la luce e il silenzio che dominano la distesa, scandita dai ceppi (“Block 45”, …), in fondo alla quale si trova il fabbricato dei forni crematori. All’interno, i macchinari metallici, qualche fiore, le mattonelle bianche ancora smaltate, e il silenzio dei visitatori che scendono agli inferi e si sentono venire incontro le presenze mute e urlanti di chi in questo luogo ha trascorso e finito i propri giorni.
A Buchenwald, qualche anno fa, in occasione delle manifestazioni per Weimar capitale europea della cultura, è stata allestita un’esposizione, all’interno di alcune sale dell’edificio che si trova all’ingresso dell’area, nella quale, con semplicità toccante, erano sistemate alcune decine di bauli, di quelli che si usavano un tempo per viaggiare, ruvidi, non vezzosi. All’interno di questi bauli, una foto o alcuni fogli e un lettore CD. Il visitatore poteva, attraverso il CD, ascoltare le testimonianze di persone che a Buchenwald avevano vissuto.
Buchenwald ha avuto, dopo l’epoca nazista, un’utilizzazione anche come campo di prigionia del regime comunista. Qui sono vissute e morte altre persone. Il museo allestito nell’edificio costruito dall’amministrazione carceraria della DDR dà conto di tutte e due le vite del campo e riesce, attraverso gli oggetti minimi ritrovati, a volte prodigiosamente nascosti dai prigionieri, a far sentire straordinariamente vicina, per quanto possibile, la loro vicenda umana.
Il silenzio domina e riempie l’assenza, la visione del verde cupo e come consapevole del bosco che è ritornato padrone, le pietre sbiancate e morte, le grida di qualche uccello.
Un percorso integrato nello spirito di riflessione ulteriore attraverso le foto di un trauma sul vortice nazista e sulla follia dell’uomo.

Le immagini sono state realizzate con pellicola fotografica, stampe acquisite senza interventi digitali.
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Di Roberto Seoni (del 25/01/2007 @ 16:38:33, in Saggistica, linkato 6437 volte)
Ricorre quest'anno il ventennale del 1977, il sulfureo anno della contestazione radicale, della violenza, degli scontri di piazza, ma anche dell'anelito giovanile verso una società meno rigida, non più divisa nei compartimenti stagni della classi, ma finalmente aperta al nuovo che avanza: P38 o idealismo, HAZETH 36 o creatività? Si moltiplicano gli incontri, gli eventi culturali e artistici dedicati a questi 365 giorni ormai entrati nella storia del nostro paese: naturalmente anche l'industria libraria si mobilita per ricordare e rappresentare le passioni, gli amori e gli odi che hanno segnato questo '68 disilluso, violento e nichilista nell'anima, tenero nella sua vocazione al martirio. Qualche mese fa è stato Massimo Grispigni, archivista, storico e studioso dei movimenti sociali, a tentare una ricostruzione del 1977 in un libro pubblicato da Manifestolibri. Si tratta di una ricostruzione puntuale e non priva di spunti critici degli avvenimenti che hanno segnato il 1977, dalle occupazioni universitarie alla cacciata di Lama dall'università di Roma, passando per i violenti scontri di piazza, le manifestazioni, le strade di Bologna occupate dai blindati. Manca forse un po' di anima a questa cronistoria che a tratti appare fredda e priva di mordente; utile soprattutto per chi volesse avvicinarsi allo studio del movimento settantasettino e intendesse imparare a conoscerne i tratti salienti. Maggiore pathos ha certamente il racconto di Lucia Annunziata, nota giornalista e attualmente editorialista della "Stampa": il suo 1977 ha il merito certamente di avvicinarsi alla tematica con un piglio da cronista, avvicinandoci agli eventi da un'ottica, per così dire, interna. Non mancano certamente le cadute di tono e le digressioni documentaristiche, ma ci colpiscono i passaggi in cui sembra di udire il tonfo secco dei cannoni spara lacrimogeni della polizia, di vedere la fuga disordinata dei manifestanti e di sentire l'odore acre che lentamente avvolge la città.
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Di Nino Romeo (del 24/01/2007 @ 15:14:56, in News, linkato 5462 volte)
"Scrivevo... anche per alcune ragioni etiche: intanto perchè i poveri di solito sono silenziosi.... La povertà soffre in silenzio. La povertà non si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza di migliorare qualcosa...[ ma ] nelle situazioni di perenne povertà la caratteristtica principale è la mancanza di speranza. Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di qualcuno che parli per lei"
brano tratto da Il cinico non è adatto a questo mestiere, e/o, 2000

Se ne è andato un altro grandissimo, uno degli ultimi, ammirato da e ammiratore di Tiziano Terzani, non a caso.
E' un grande lutto per la cultura mondiale.
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Di Francesca Cingoli (del 24/01/2007 @ 07:37:04, in Libri di narrativa, linkato 4825 volte)
Trent’anni di vita a Brooklyn. Nei primi anni 70 in Dean Street si fa vita di strada e di ghetto, in una comunità di afroamericani e portoricani.
Dylan Ebdus è l’unico bambino bianco, figlio di genitori hippy e un po’ visionari, che hanno scelto il trasferimento nel quartiere nero come un manifesto della propria cultura evoluta.
Per Dylan l’infanzia tra i ragazzi di Dean Street è difficile: le tensioni razziali e gli scontri in strada, con i “cappi” e i furti da parte dei coetanei neri, sono parte della sua quotidianità, insieme alla paura e all’isolamento di chi è diverso, provocato, minacciato dal gruppo.
L’incontro con il ragazzino nero Mingus Rude segna l’inizio di un’amicizia, forte e salda, che nasce sulle solitudini e sui sogni di due bambini così diversi ma con storie familiari simili.
Dylan e Mingus vivono insieme gli anni della scuola e delle prime esperienze: i giochi sul marciapiede e i primi segnali di delinquenza, la scoperta del sesso, la vita alle superiori, con la sua cultura di violenza, estorsioni e droga, che si diffonde contagiando tutto e tutti.
Attraverso l’amicizia di Dylan e Mingus, La fortezza della solitudine traccia il percorso di una generazione che non conosce solo contrasti sociali e isolamenti umani, ma anche segnali di grande creatività, come affermazione di identità e di espressione: i graffiti, i “tag” con i quali i ragazzi lasciano il loro marchio sul territorio; la black music, che racconta la loro vita in un’ideale colonna sonora, e che è la grande protagonista del romanzo; i fumetti Marvel, e il mito dei supereroi, il desiderio di potenza ma anche di redenzione, che diventa ossessione di superpoteri, e sogno di uno “spazio intermedio”, un “cono di bianco” cui appartenere (il titolo si riferisce infatti al rifugio segreto di Superman) .
A partire dai due protagonisti, sono tanti i personaggi che affollano Dean Street ne La fortezza della solitudine: per alcuni ci sarà il college, e la prospettiva di un futuro, per altri il carcere, approdo di una vita di contrapposizioni dal destino già segnato.
Un romanzo metropolitano intenso e complesso, e un grande affresco umano, che ci racconta con forza e crudeltà le contraddizioni e i conflitti sociali di trent’anni di storia americana.
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