Buchenwald. Il bosco del silenzioDalle fotografie di Nino Romeo dei resti del campo di Buchenwald appaiono quasi come i reperti di un sito archeologico; i visitatori, come drappelli di turisti durante una visita a Pompei fuori stagione. Anticipando una visione che il progressivo ineluttabile allontanamento delle future generazioni dalle testimonianze dirette di quell’epoca storica potrebbe rendere sempre più probabile, l’azione espositiva sottolinea l’esigenza vitale di non spegnere in noi e nei nostri discendenti il bruciore vivo del dolore e della vergogna, con i quali l’olocausto ha marchiato una intera civiltà. A memoria di tutte le stragi di massa e pulizie etniche a cui ancora oggi siamo spettatori inermi, una politica internazionale incapace di intervenire nel vanificare le ragioni che le determinano.
“La dimensione di bosco è [...] quella che colpisce maggiormente a prima vista il visitatore dell’area nella quale si trova il campo di concentramento di Buchenwald. Il bosco si è ripreso gran parte di ciò che solo una cinquantina d’anni fa l’uomo aveva riordinato secondo un proprio disegno lucido e manageriale. Il bosco ha inghiottito buona parte del tracciato ferroviario che collegava il campo alla città vicina e al resto del paese e sul quale viaggiavano in vagoni piombati gli individui prescelti per finire in quel bosco. La regione nella quale il bosco si trova è, appunto, verde e serena. La città vicino alla quale fu costruito, Weimar, è luogo di testimonianza di grandi intelletti, che tuttora comunica, nella sua bellezza tranquilla e misurata, il trionfo della parte migliore dell’uomo. Proprio lì accanto, il teatro della parte peggiore.
A differenza di Auschwitz, luogo anche paesaggisticamente assai dissimile, che conserva un involucro preciso e strutture edificate in mattoni e muratura, oltre alle baracche degli internati, Buchenwald è più un’area nella quale proiettare il proprio immaginario del campo, attraverso ciò che ne rimane (il cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”), il piccolo edificio con le celle dove erano rinchiusi e torturati i prigionieri che si macchiavano di crimini particolari, l’ambulatorio degli esperimenti medici, le strutture destinate a caserme per gli ufficiali nazisti, la baracca superstite, prima smantellata e poi ricostruita, ma soprattutto attraverso la luce e il silenzio che dominano la distesa, scandita dai ceppi (“Block 45”, …), in fondo alla quale si trova il fabbricato dei forni crematori. All’interno, i macchinari metallici, qualche fiore, le mattonelle bianche ancora smaltate, e il silenzio dei visitatori che scendono agli inferi e si sentono venire incontro le presenze mute e urlanti di chi in questo luogo ha trascorso e finito i propri giorni.
A Buchenwald, qualche anno fa, in occasione delle manifestazioni per Weimar capitale europea della cultura, è stata allestita un’esposizione, all’interno di alcune sale dell’edificio che si trova all’ingresso dell’area, nella quale, con semplicità toccante, erano sistemate alcune decine di bauli, di quelli che si usavano un tempo per viaggiare, ruvidi, non vezzosi. All’interno di questi bauli, una foto o alcuni fogli e un lettore CD. Il visitatore poteva, attraverso il CD, ascoltare le testimonianze di persone che a Buchenwald avevano vissuto.
Buchenwald ha avuto, dopo l’epoca nazista, un’utilizzazione anche come campo di prigionia del regime comunista. Qui sono vissute e morte altre persone. Il museo allestito nell’edificio costruito dall’amministrazione carceraria della DDR dà conto di tutte e due le vite del campo e riesce, attraverso gli oggetti minimi ritrovati, a volte prodigiosamente nascosti dai prigionieri, a far sentire straordinariamente vicina, per quanto possibile, la loro vicenda umana.
Il silenzio domina e riempie l’assenza, la visione del verde cupo e come consapevole del bosco che è ritornato padrone, le pietre sbiancate e morte, le grida di qualche uccello.
Un percorso integrato nello spirito di riflessione ulteriore attraverso le foto di un trauma sul vortice nazista e sulla follia dell’uomo.
Le immagini sono state realizzate con pellicola fotografica, stampe acquisite senza interventi digitali.