Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
A metà Quattrocento l’Italia vide il fiorire di quella temperie culturale caratterizzata da un rinnovato interesse nella scienza, nella matematica e da una riscoperta dell’uomo come essere razionalmente pensante, che portò successivamente alla grande stagione rinascimentale e che fece sentire il suo influsso su ogni aspetto della produzione culturale, compresa l’arte. È l’epoca in cui teorici come Leon Battista Alberti e Luca Pacioli intrecciarono i loro studi con l’opera di artisti quali Pisanello, Beato Angelico, Donatello e Veneziano, ma soprattutto Piero della Francesca. Proprio a questo grande artista Arezzo dedica un’importante mostra, che si terrà dal 31 marzo al 22 luglio, e che per la prima volta offre ai visitatori la possibilità di ammirare l’opera di Piero nella sua interezza, dai capolavori esposti nelle sale del museo statale di Arezzo, al meraviglioso ciclo di affreschi con le storie della Leggenda della Vera Croce, per poi snodarsi nelle varie località in cui l’artista operò nel corso degli anni, dalla natia Borgo San Sepolcro, a Urbino, a Monterchi, dove è visibile la Madonna del parto.. Mentre nell’Italia settentrionale ci si indirizzava verso la grande stagione coloristica, stimolata da un contatto più diretto con la pittura fiamminga, con un’attenzione particolare alla resa dei colori, nell’Italia centrale maggior interesse suscitavano gli studi sulla prospettiva, sulla linearità e sulla luce. Questi aspetti caratterizzarono la grande scuola toscana, e furono teorizzati dallo stesso Piero della Francesca nel suo trattato De Prospectiva Pingendi, in cui indica come i tre aspetti principali della realizzazione pittorica “disegno, commensuratio et colorare”, tre capisaldi della sua arte. Soprattutto la “commensuratio”, ovvero la misurazione geometrica e prospettica, fu al centro dei suoi studi, e lo portò a creare composizioni inquadrate in ordinati schemi, giocate su iperboliche creazioni prospettiche, come nella Flagellazione di Urbino. Quest’opera, dal significato enigmatico, legata alla situazione culturale e storica dell’epoca, è un rebus, che col suo portato di significati criptici non poteva che stimolare la mentre di un signore umanista come Federico da Montefeltro, nella cui corte l’opera fu creata. Nei secoli le interpretazioni di questa tavola si sono susseguite, più o meno convincenti, portando alla pubblicazione di opere come il recente L’enigma di Piero di Silvia Ronchey. Piero della Francesca si dedicò per tutta la vita al calcolo della prospettiva e alle teorie matematiche, forse stimolato anche dall’ambiente familiare; non bisogna dimenticare che, venendo da una famiglia di mercanti, per i quali la capacità di calcolare a prima vista misure e pesi era un aspetto basilare dell’ attività commerciale l’occhio di Piero fu abituato sin dalla prima infanzia al calcolo e alla misurazione. Proprio le sue prospettive,unite ad una resa zenitale della luce, portarono alla creazioni di opere al limite del metafisico, composizioni in cui l’allungarsi delle linee prospettiche, la luminosità dei colori e la resa fisioniomica, priva di un eccessivo espressionismo, creano quasi un senso di distacco dalla realtà, che solo la meticolosa resa del dettaglio, eredità della cultura pittorica fiamminga, restituiscono alla quotidianità dell’epoca. Il viaggio attraverso l’opera di Piero della Francesca, pregevolmente narrato da Edgarda Ferri nella sua opera Piero della Francesca, il maestro della luce, si lega inestricabilmente con il contesto storico in cui l’artista operò, in quegli anni centrali del XV secolo in cui si susseguirono ondate di peste, guerre, ma in cui soprattutto vide la sua fine l’impero bizantino ad opera dei turchi; questi eventi segnarono profondamente gli uomini del tempo, un tempo di forza e brutalità, ma anche di raziocinio e indagine scientifica. Tutti questi aspetti sono racchiusi nell’opera di Piero, e in modo particolare nel ciclo della Leggenda della Vera Croce, meravigliosamente restituitoci dopo un restauro protrattosi svariati anni, che ha permesso di riscoprire i colori e la luce caratteristici di questo grande artista, sia nelle assolate scene di battaglia, che nel primo notturno della storia dell’arte, la scena rappresentante il Sogno di Costantino. Autori: BERTELLI CARLO; PAOLUCCI ANTONIO Titolo: PIERO DELLA FRANCESCA E LE CORTI ITALIANE Sottotitolo: AREZZO, 31 MARZO-22 LUGLIO 2007 Editore: SKIRA
Il 23 aprile si celebra la Giornata mondiale del libro e del diritto d'autore promossa dall' UNESCO per il tredicesimo anno consecutivo. Quest'anno il tema scelto dalla Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO è la diversità culturale. Molte le iniziative in programma a livello mondiale, ed anche in Italia ci saranno diverse manifestazioni. Sul sito dell'UNESCO trovate tutte le informazioni relative alle iniziative.A Milano, ad esempio, i festeggiamenti inizieranno il giorno prima, domenica 22 aprile, dove allo Spazio Toti del Museo della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" tutti coloro che si presenteranno con un libro potranno accedere gratuitamente. Una volta dentro il museo, si potrà partecipare allo scambio di copia lasciando il libro portato da casa nella biblioteca di scambio per portarsene via un altro, o registrando un video-testimonianza sul proprio libro preferito. L'iniziativa è in partnership con FNAC e Bookcrossing Italia.
Curioso, divertente e anche un po' dissacrante! La Zuppa di Kafka ripercorre la storia della letteratura mondiale dalle origini ad oggi in sedici ricette. E' a tutti gli effetti un ricettario con le quantità e gli ingedianti, ma il procedimento della ricetta è raccontata alla maniera e con estratti di brani di grandi autori delle letteratura mondiale. Indicato per lettori voraci e cuochi letterati.
"Avete mai pensato alla cucina come letteratura? Se Kafka avesse scritto ricette, che cosa sarebbe venuto fuori? C’è di che essere preoccupati: frigorifero vuoto, e gli ospiti hanno subito una metamorfosi, ora sono un gruppo di inquisitori. Il senso di colpa assale il cuoco mentre loro si siedono per giudicare l’inadeguatezza della cena. E se uno dei personaggi di Welsh dovesse preparare una supertorta al cioccolato? Polveri brune e bianche che sono uno sballo. Se invece Phil Marlowe torchia un limone, non ci vuole molto perché sputi quello che doveva sputare. Esercizi parodistici raffinati e divertenti, sedici ricette scritte nello stile di sedici grandi scrittori: Jane Austen, Jorge Luis Borges, Italo Calvino, Raymond Chandler, Geoffrey Chaucer, Graham Greene, Franz Kafka, Thomas Mann, Gabriel García Márquez, Omero, Harold Pinter, Marcel Proust, Marchese de Sade, John Steinbeck, Irvine Welsh, Virginia Woolf."
Una storia alla Charles Dickens nel cuore di Bombay. Il bambino con i petali in tasca è una favola triste, perché parla di infanzia abbandonata e di sofferenza, ma anche commovente, perché insegna a credere ancora nell’innocenza e nel sogno. Chamdi ha 10 anni, e ha sempre vissuto, protetto e nutrito, nell’orfanotrofio alle porte di Bombay. Una Bombay ferita e martoriata dagli scontri politici e religiosi tra induisti e musulmani nei primi anni 90. Non conosce nulla delle sue origini e del suo passato, ma ne è ossessionato. Chamdi è un ragazzino sensibile e sognatore, incantato dai colori delle bouganville che ricoprono i muri dell’orfanotrofio: sono colori così belli e puri che con loro non si conosce il dolore e la tristezza. Il giorno in cui viene annunciata la definitiva chiusura dell’orfanotrofio, il cui edificio è stato messo in vendita, Chamdi capisce che è arrivato il momento di affrontare il mondo da uomo: costringe la direttrice a rivelargli la verità sulla sua identità, e quando scopre di essere stato abbandonato lì dal padre, scappa di notte – con le tasche piene di petali – per andare a cercarlo. Il mondo che lo accoglie fuori non ha però i colori delle bouganville, ma gli odori e i rumori dei bassifondi di Bombay. Una realtà di mendicanti, violenze e povertà, tanto lontana dai sogni di Chamdi, che nella sua mente di sognatore si è dipinta l’immagine di Kahunsha “ la città senza tristezza”, dove non esiste miseria o infelicità, e i bambini possono giocare sereni in strada. Sumdi e Guddi sono fratello e sorella, come lui soli e disperati, alla mercé del capo della delinquenza locale, Anand Bhai, che assolda anche Chamdi nel suo squallido e storpio esercito di mendicanti. Tra i tre ragazzini si stringe in poche ore un rapporto di solidarietà e fiducia, basato sulla lotta per la sopravvivenza e il sogno della fuga da Bombay. L’attentato a un tempio, nel quale in molti perdono la vita, segnerà la svolta nella vicenda di Chamdi e dei suoi compagni. Il bambino con i petali in tasca è un piccolo Oliver Twist indiano, dolce e intraprendente, che attraversa le strade sporche e malfamate di Bombay protetto dalla sua innocenza e dal suo sogno di purezza. Una storia che non nasconde nessuno degli orrori della delinquenza urbana e dello sfruttamento infantile, vero a Bombay come altrove: dell’India c’è tutta la realtà, pittoresca e terribile, sacra e violenta. I tre ragazzini protagonisti sono incantevoli: Chamdi con le sue costole appuntite, e l’occhio capace di cogliere dovunque i colori di un fiore, Sumdi, sfrontato e superbo, un vero combattente da strada, e la piccola Guddi, con il suo abito marrone, i braccialetti arancio e la faccia sporca, capace di annullare tutto il brutto del mondo con la sua voce, che canta la bellezza e la purezza dell’amicizia, e lascia a chi legge il dolce sapore della speranza.
E' finalmente uscito l'ultimo romanzo Jezabel, pubblicato postumo da Adelphi, di Irene Némirosvky. E' la triste storia di una donna che vive nel "terrore patologico di invecchiare" e ucciderà per questo. Sullo sfondo, il rapporto della donna con la figlia. Dopo la splendida recensione del libro apparsa su TuttoLibri l'inserto de La Stampa, ho seguito il consiglio di Gabriella Bosco e sono andata a rileggermi una volta finito il primo capitolo... fatelo anche voi. Note di CopertinaDalla penna finissima della grande scrittrice riscoperta in tutto il mondo grazie a Suite francese, la storia di una donna che la paura di non essere più amata spinge al delitto. Quando fa il suo ingresso nell'aula di tribunale in cui verrà giudicata per l'omicidio del suo giovanissimo amante, Gladys Eysenach viene accolta dai mormorii di un pubblico sovreccitato, impaziente di conoscere ogni più sordido dettaglio di quello che promette di essere l'affaire più succulento di quanti il bel mondo parigino abbia visto da anni. Nel suo pallore, Gladys evoca davvero l'ombra di Jezabel, quell'ombra che nell'Athalie di Racine compare in sogno alla figlia, che così la descrive: «Non ne aveva, il dolore, smorzato la fierezza; / aveva anzi, ancora, quella finta bellezza / mantenuta con cure, con espedienti labili, / per riparar degli anni le sfide irreparabili». Sì, è ancora molto, molto bella, Gladys Eysenach: il tempo sembra averla «sfiorata come a malincuore, con mano cauta e gentile», quasi si fosse limitato ad accarezzarla teneramente, e le donne presenti nell'aula si sussurrano con invidia i nomi dei suoi innumerevoli amanti. Ma pochi giorni dopo, allorché vengono pronunciate le arringhe, tutta la sua bellezza pare averla abbandonata, e Gladys è ormai soltanto una donna vecchia e sfinita, che a mani giunte supplica i giudici di infliggerle la pena che merita. La condanna sarà lieve, invece, solo cinque anni: il movente passionale ha fatto sì che le venissero concesse le attenuanti previste dalla legge. Ma qual è la verità - quella verità che Gladys Eysenach ha cercato ad ogni costo di occultare? Qual è il vero movente dell'omicidio da lei commesso? Capace come pochi altri scrittori di scavare nel cuore femminile con implacabile, chirurgica precisione, Irène Némirovsky ci svela a poco a poco il segreto di questa donna che ha desiderato più di ogni altra cosa di sconfiggere il tempo, di rimanere immutabilmente bella, di essere amata per sempre - e che per questo è arrivata a uccidere. «Gladys era circondata da uomini innamorati. A giuramenti, suppliche, lacrime era assuefatta come l'alcolizzato lo è al vino; non le bastavano mai, ma il loro dolce veleno le era necessario come l'unico alimento che potesse tenerla in vita. Non se lo nascondeva. Pensava che una donna non è mai sazia, che è un piccolo animale infaticabile, che un ambizioso può stancarsi degli onori e un avaro dell'oro, ma una donna non rinuncerà mai al suo mestiere di donna. Quando i suoi pensieri correvano alla vecchiaia, questa le sembrava ancora così lontana che la guardava in faccia senza tremare, e si figurava che per lei la morte sarebbe arrivata prima della fine del piacere». Autore: NEMIROVSKY IRENE Titolo: JEZABEL Editore: ADELPHI Prezzo: € 16,50
Cristina Omenetto In&OutDal 2 al 12 maggio 2007Incontro con l’autrice: Lunedì 7 maggio ore 17.30 " E' da un po' che sento che niente può essere più detto che non sia stato già detto sull' "America." E ultimamente sento anche che appena dici qualcosa già non è più vero. "L'America" sembra sfuggire al linguaggio. Sempre di più. Le parole non possono più descriverla. Punto. E le immagini? Peggio ancora! Hanno dovuto arrendersi, in toto. .......... L'America si rifiuta di farsi fissare in immagini. Miracolosamente, potete trovarla nelle fotografie di questo libro. Eccola. Io non so cosa ha fatto Cristina Omenetto per agguantarla. Deve avere fatto queste fotografie in momenti senza tempo, in qualche millisecondo sparito dalla conta. ........... Queste sono "stealth photographs". Mostrano un viaggio nell'invisibibile. L'America." Wim Wenders dall’introduzione all’omonimo libro In&Out di Cristina Omenetto Autore: OMENETTO CRISTINA Titolo: IN & OUT Sottotitolo: CON UNO SCRITTO DI WIM WENDERS Editore: BALDINI E CASTOLDI Prezzo: € 46,48
In occasione del ventennale della casa editrice Iperborea il 3 maggio alle ore 18:30 presso la sala conferenze delle Libreria HOEPLI verrà presentato il libro: PERDUTO IL PARADISO di CEES NOOTEBOOM Introduce Fulvio Ferrari
Una sera d'estate a Sào Paulo in Brasile una donna esce fare un giro in macchina e si ritrova in Australia, coricata a canto a un uomo che dorme. È così che Alma sceglie di racontarsi i fatti per esorcizzare il ricordo di quella terribile notte in cui si è allontanata dalla sua casa nel ricco quartiere Jardins lasciandosi attirare nell'infernale favela di Paraìsoolis, dove viene umiliata e violentata. È in Australia che spei di trovare la guarigione, la riconciliazione con se stessa e cc la vita, in quella terra promessa dell'infanzia che va a cercai con l'amica Almut, nell'illusione che esista ancora quel modo intatto di un'esistenza immutabile fuori dal tempo, il paese degli Aborigeni, del tempo del sogno, dei canti, dei deserti dai nomi come incantesimi. Ma se il vento devastante del storia ha ridotto in macerie anche quel paradiso, forse qualcosa è rimasto in quegli spazi e in quei silenzi dove il sovrannaturale è di casa: è lì, a Perth, dov'è invitato a un festival letterario, che Erik Zondag, disincantato intellettuale olandese in perenne erranza esistenziale, incontrerà Alma tramutai in angelo per una caccia al tesoro in omaggio a Milton e suo Paradiso perduto. Un'apparizione fuggevole e sconvolgente come un'annunciazione, l'incontro con una possibili di armonia, di bellezza e di appartenenza all'esistere che resta l'inappagabile nostalgia dell'anima. Racchiuso tra un prologo in cielo, in aereo, e un epilogo in terra, in treno, sotti non-luoghi da cui l'autore guarda la sua creazione, il romanzo è una meditazione leggera e alta come un volo d'angel che spazia tra i continenti e le più profonde aspirazioni umane: se la perdita è la cifra dell'esperienza, non sta proprio l'essenza della vita, e della scrittura? Non in quell'Eden a cui siamo stati ineluttabilmente cacciati, ma, come nei ver finali del poema di Milton posti a conclusione del romanzi in quel cammino solitario a passi lenti e incerti con cui Ad mo ed Eva si avviano mano nella mano verso il mondo. Dall'anticipazione: Alma e Almut, due ragazze brasiliane di origine tedesca, coltivano un sogno segreto: andare un giorno in Australia, addentrarsi nell’immenso deserto costellato di simboli misteriosi e di luoghi sacri, immergersi nell’enigmatica e affascinante cultura aborigena. Il sogno diventa progetto, salvezza, via di guarigione quando Alma, una notte, capita casualmente nella favela di Paraisópolis e subisce una violenza di gruppo. In fuga da quell’inferno che porta il nome del Paradiso, in fuga dall’esistenza ordinata e borghese del suo quartiere, Jardins, Alma e Almut vanno alla ricerca dell’Eden, del mondo primordiale e carico di senso che si nasconde nel cuore dell’Australia. Ma anche quel paradiso è perduto, una barriera di parole, concetti, immagini, separa il “tempo del sogno” dall’esperienza quotidiana dell’uomo e della donna occidentale. Quasi come un simbolo, una manifestazione visibile di questa distanza incolmabile, un giovane pittore aborigeno accoglie Alma nell’intimità del suo corpo, senza però concederle mai di accedere alla sua interiorità, al suo linguaggio segreto. Ad Alma non resta dunque che farsi angelo lei stessa, seppure in modo piuttosto sorprendente e non convenzionale, e portare nel mondo la luminosità di un’esistenza diversa e più intensa. Romanzo leggero, veloce, e tuttavia denso di riflessione, Il perduto Paradiso intreccia intorno alla figura della protagonista le vicende di persone tra loro distantissime nello spazio e nell’anima, stendendo un reticolo di allusive coincidenze e di racconti sull’intero globo terrestre. Ma, forse, tutto questo non è che la tela illusoria intessuta dal sibillino narratore del prologo e dell’epilogo, osservatore e inventore che apre e chiude il romanzo in un gioco di fantasie e di rimandi, variando il tema dettato, secoli fa, dal maestro Milton. LEGGI LE PRIME PAGINE DEL LIBRO
James Othmer è l’autore de L’uomo che vendeva il futuro e manager di una delle più note ed importanti agenzie di pubblicità nel mondo, la Young & Rubicam. Esperto di comunicazione, di tendenze, di cosiddetti stili di vita emergenti, ha dedicato il suo primo romanzo alla figura quantomeno insolita ma assolutamente reale di un uomo che, di mestiere, annuncia il futuro. Il protagonista Yates vive tra interviste, meeting e congressi, confeziona discorsi, crea slogan, e gira i cinque continenti anticipando cosa il mondo vivrà nel suo futuro: quali mode, quali trend, quali prodotti, quali pensieri. Il suo lavoro è leggere il mondo, catalogarlo, capirlo e annunciarne le novità, possibilmente prima degli altri: vende ottimismo e aforismi a governi, uomini politici, aziende, associazioni, gruppi religiosi, a chiunque, insomma. Yates anticipa e vende. Finché un giorno non ci crede più. Nel pieno di un mega convegno di Futureworld a Johannesburg, di fronte a una platea internazionale di esperti giunti da ogni paese per ascoltare lui e le sue ottimistiche visioni, dichiara la sua ignoranza, la sua completa incapacità di capire il mondo presente, figuriamoci quello futuro. Si scatena il finimondo, ne parlano i telegiornali dell’intero globo, Yates finisce anche pestato e sanguinante. La sua carriera è finita, e Yates spera con questo gesto conclusivo di essersi liberato dalla schiavitù di una missione che ormai gli pesa. Tra l’altro la fidanzata l’ha lasciato (beffa delle beffe) per un professore di storia. Per Yates è tempo di cambiare, fermandosi e riflettendo – stavolta - sul suo presente. Ma il mondo del capitalismo e del pensiero moderno è capace di superare se stesso, e Yate è automaticamente riabilitato. Sul suo esempio nasce addirittura un nuovo trend, (perché ormai qualsiasi cosa si trasforma in moda): il suo outing crea la Coalizione degli Ignari, con tanto di sito, blog, associazione e associati esaltati dalla novità. Chiusa la parentesi “futurista”, Yates viene assunto da oscuri personaggi governativi, e diventa osservatore per l’America: in ogni parte del mondo, dalla Groenlandia all’Italia, dai paradisi del surf agli stati Arabi, il suo nuovo e misterioso lavoro è capire cosa la gente pensa degli americani e della loro cultura, e interpretare quali sono le Minacce e le Opportunità emergenti per l’America. L’uomo che vendeva il futuro è un romanzo sociale, ironico, sarcastico e attualissimo, sulla nullità e sulla presunzione del mondo, e sull’assurdità e inconsistenza di molti aspetti della nostra vita, soggetta ai mass media e schiava della politica – e delle politiche - del business. Lo stile di James Othmer è pungente e immediato, sa colpire a fondo ma col sorriso della provocazione: il suo debutto letterario merita davvero una lettura, e qualche buona riflessione.
“ Penso che quando un giardino, un paesaggio sopravvivono attraverso generazioni che ne capiscono il valore, questa sia la più bella forma d’arte che esista.” Un amico, un giorno, mi ha consigliato di leggere questo libro di cui aveva sentito parlare. Un paesaggista ed una scrittrice che attraverso lo scambio epistolare, raccontano le vicissitudini quotidiane, i progetti intrapresi, le vittorie e le sconfitte, le loro reciproche perplessità. Un racconto nel quale i protagonisti cercano, attraverso le loro esperienze quotidiane, di individuare l’entità giardino a cui affidare il nostro rispetto e la nostra progettualità. In questo libro i reciproci dubbi dei protagonisti, danno vita ad una serie di domande a cui tentano di dare risposta, non tanto una risposta definitiva quanto una che lasci spazio alla grande voglia degli stessi di proseguire lungo una strada, ormai abbandonata da tempo, quella del rispetto per una natura che già preesisteva prima dell’intervento di qualsiasi essere umano, alla ricerca del giardiniere che possa dialogare con essa. Intitolare il libro “contro il giardino” non è quindi una contraddizione, ma un modo per indirizzare la nostra attenzione verso ciò che veramente conta, ovvero, come dice lo stesso sottotitolo “dalla parte delle piante”, rivalutare quelli che devono ritornare ad essere i veri protagonisti del giardino, ovverosia le piante stesse. Niente decantazione quindi verso la bravura degli uomini che forgiano e modificano le stesse in base alle esigenze di committenti, appaltatori o per propria gloria personale, ma riscoprire e assecondare ciò che la natura crea spontaneamente o si riprende con grande forza, dopo gli abbandoni o le erronee decisioni prese dagli uomini. Basta piante ingabbiate in spazi che non sono i loro, o costrette a crescere in luoghi non idonei, basta con le solite essenze, scelte solo in base alla moda del momento. Si invece alle “piantacce”. Sì, avete letto proprio bene, rivalutate nella loro molteplicità di forme e varietà, per scoprire che può essere molto più interessante e complicato per un vero giardiniere, assecondare la natura stessa, cogliere gli spunti che essa generosamente ci regala. Certo, come sostengono gli autori occorrono veri giardinieri per poter cogliere queste possibilità e gli stessi si domandano dove questi siano finiti. Individui contraddistinti dalla semplicità e soprattutto dalla capacità di integrarsi con la natura, dalla consapevolezza della loro responsabilità verso la stessa, sostituiti oggi da giardinieri che rappresentano lo spirito dell’epoca in cui viviamo: “ in cui tutti devono, o possono, sapere tutto di tutti anche se nessuno sa esattamente qualcosa di preciso”. Ed ecco quindi la bella lettera in cui Perazzi racconta dei giardini autogeneratisi, in particolare di quello scoperto a Sesto San Giovanni, nelle dimesse acciaierie Falk, dove le così dette erbacce si erano riappropriate di un’area abbandonata dall’uomo stesso. “ Questo è il genere di giardino che mi incuriosisce di più, quello che ti sorprende e coinvolge nei sensi, come nella mente. Lo spazio dove sono entrato non era un giardino curato, eppure tutto appariva organizzato con naturalezza. Il progetto migliore di fronte a questi spazi è quello di non fare niente, limitandosi a monitorare la natura per comprenderla meglio. Sono convinto che le piante assumono valore e importanza solo nel momento in cui si comprende la loro dinamica e le loro potenzialità.” Ecco il racconto di un progetto affidatogli da un comune per la costruzione di un parco pubblico, dove il rispetto del verde e la creazione della stesso parco non deve essere solo rappresentato da un progetto comune/paesaggista, ma deve bensì coinvolgere tutti i futuri fruitori, in modo che gli stessi possano costruirlo giorno per giorno ed affezionarcisi, così da rispettarlo. Insomma una lunga rivalutazione di tutto ciò che per anni è stato considerato “fuori moda”, inutile, da eliminare o più semplicemente il suggerimento per vedere il nostro verde da una nuova prospettiva a cui nessuno ci ha mai abituato a pensare. Autore: PERA PIA; PERAZZI ANTONIO Titolo: CONTRO IL GIARDINO Editore: PONTE ALLE GRAZIE Prezzo: € 13,50
Mercoledì 9 maggio 2007 - ore 18:00 presso la Libreria Hoepli presentazione del volume LA PARTE ABITATA DELLA RETE di Sergio MaistrelloCon la partecipazione di Tommaso Labranca e Luca SofriPiù che un manuale o un saggio, questa è una guida turistica: racconta di una parte di Internet che cresce in fretta e sta facendo parlare molto di sé. Nasce con i blog, i wiki, il podcasting e i social network: un numero esplosivo di persone sta utilizzando gli strumenti più maturi di Internet per esprimere punti di vista e per condividere competenze, dando vita a nuove forme di opinione pubblica e a sistemi innovativi di mediazione tra le diverse visioni del mondo. Dentro La parte abitata della Rete i cittadini digitali stanno imparando a essere nodi in un sistema creativo ricco di opportunità e questo processo già oggi influenza il modo in cui si fa informazione, cultura, politica e mercato. Il libro prende avvio dalla geografia di questo mondo digitale ed esamina gli strumenti con cui se ne acquisisce la residenza, per poi approfondire i processi che determinano i comportamenti online, i meccanismi della collaborazione e il modo in cui si misurano i benefici individuali e collettivi. clicca qui per andare al Blog di Sergio Maistrello
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