Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ecco una testimonianza fotografica della presenza di Larry Fink alla Libreria HOEPLI.
E' iniziata la mitica e sempre affascinante Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri (UEM). Sono oramai più di vent'anni che la scuola si tiene a Venezia sulla bellissima isola di San Giorgio. Per una Settimana si parla di libri, dove nascono, dove vanno, cosa si fara' nel futuro della carta stampata. Tutti, dagli autori agli editori e soprattutto i librai, diranno la loro sui libri, impareranno ed insegneranno. Riportiamo una delle introduzioni piu' belle fatte Domenica, giorno di apertura della Scuola UEM a venezia: "Buongiorno e Benvenuti ! ogni volta che vedo dei librai mi emoziono, d'altronde io la mia famiglia viviamo di libri da 135 anni e quindi siamo librai e trattiamo con librai. Mio figlio fece questa stessa scuola UEM oramai 10 anni fa e mi dice sempre che e' come un master per librai,utilissima e ti da una marcia in più. Certo ci saranno momenti difficili, quando si vende poco e vi dicono che il libro e' morto e si vende solo elettronica ed e-book.Ma che io sappia negli utlimi anni si sono venduti molto ma molti piu' libri. Certo anche in edicola , online o nei supermercati. Ma questo vuol dire solo che il libro piace, è un prodotto utile e ricco. E poi che le persone quando vedono un libro che piace lo comprano e diventano lettori, ovvero vostri clienti. Hanno quindi bisogno di voi, dei vostri consigli e dei vostri bellissimi libri di carta. Siete quindi utili e molto fortunati a fare i librai. Buon lavoro ed in bocca al lupo " Ulrico Hoepli
Trent’anni di vita a Brooklyn. Nei primi anni 70 in Dean Street si fa vita di strada e di ghetto, in una comunità di afroamericani e portoricani. Dylan Ebdus è l’unico bambino bianco, figlio di genitori hippy e un po’ visionari, che hanno scelto il trasferimento nel quartiere nero come un manifesto della propria cultura evoluta. Per Dylan l’infanzia tra i ragazzi di Dean Street è difficile: le tensioni razziali e gli scontri in strada, con i “cappi” e i furti da parte dei coetanei neri, sono parte della sua quotidianità, insieme alla paura e all’isolamento di chi è diverso, provocato, minacciato dal gruppo. L’incontro con il ragazzino nero Mingus Rude segna l’inizio di un’amicizia, forte e salda, che nasce sulle solitudini e sui sogni di due bambini così diversi ma con storie familiari simili. Dylan e Mingus vivono insieme gli anni della scuola e delle prime esperienze: i giochi sul marciapiede e i primi segnali di delinquenza, la scoperta del sesso, la vita alle superiori, con la sua cultura di violenza, estorsioni e droga, che si diffonde contagiando tutto e tutti. Attraverso l’amicizia di Dylan e Mingus, La fortezza della solitudine traccia il percorso di una generazione che non conosce solo contrasti sociali e isolamenti umani, ma anche segnali di grande creatività, come affermazione di identità e di espressione: i graffiti, i “tag” con i quali i ragazzi lasciano il loro marchio sul territorio; la black music, che racconta la loro vita in un’ideale colonna sonora, e che è la grande protagonista del romanzo; i fumetti Marvel, e il mito dei supereroi, il desiderio di potenza ma anche di redenzione, che diventa ossessione di superpoteri, e sogno di uno “ spazio intermedio”, un “ cono di bianco” cui appartenere (il titolo si riferisce infatti al rifugio segreto di Superman) . A partire dai due protagonisti, sono tanti i personaggi che affollano Dean Street ne La fortezza della solitudine: per alcuni ci sarà il college, e la prospettiva di un futuro, per altri il carcere, approdo di una vita di contrapposizioni dal destino già segnato. Un romanzo metropolitano intenso e complesso, e un grande affresco umano, che ci racconta con forza e crudeltà le contraddizioni e i conflitti sociali di trent’anni di storia americana.
Di Nino Romeo (del 24/01/2007 @ 15:14:56, in News, linkato 5505 volte)
"Scrivevo... anche per alcune ragioni etiche: intanto perchè i poveri di solito sono silenziosi.... La povertà soffre in silenzio. La povertà non si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza di migliorare qualcosa...[ ma ] nelle situazioni di perenne povertà la caratteristtica principale è la mancanza di speranza. Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di qualcuno che parli per lei" brano tratto da Il cinico non è adatto a questo mestiere, e/o, 2000 Se ne è andato un altro grandissimo, uno degli ultimi, ammirato da e ammiratore di Tiziano Terzani, non a caso. E' un grande lutto per la cultura mondiale.
Ricorre quest'anno il ventennale del 1977, il sulfureo anno della contestazione radicale, della violenza, degli scontri di piazza, ma anche dell'anelito giovanile verso una società meno rigida, non più divisa nei compartimenti stagni della classi, ma finalmente aperta al nuovo che avanza: P38 o idealismo, HAZETH 36 o creatività? Si moltiplicano gli incontri, gli eventi culturali e artistici dedicati a questi 365 giorni ormai entrati nella storia del nostro paese: naturalmente anche l'industria libraria si mobilita per ricordare e rappresentare le passioni, gli amori e gli odi che hanno segnato questo '68 disilluso, violento e nichilista nell'anima, tenero nella sua vocazione al martirio. Qualche mese fa è stato Massimo Grispigni, archivista, storico e studioso dei movimenti sociali, a tentare una ricostruzione del 1977 in un libro pubblicato da Manifestolibri. Si tratta di una ricostruzione puntuale e non priva di spunti critici degli avvenimenti che hanno segnato il 1977, dalle occupazioni universitarie alla cacciata di Lama dall'università di Roma, passando per i violenti scontri di piazza, le manifestazioni, le strade di Bologna occupate dai blindati. Manca forse un po' di anima a questa cronistoria che a tratti appare fredda e priva di mordente; utile soprattutto per chi volesse avvicinarsi allo studio del movimento settantasettino e intendesse imparare a conoscerne i tratti salienti. Maggiore pathos ha certamente il racconto di Lucia Annunziata, nota giornalista e attualmente editorialista della "Stampa": il suo 1977 ha il merito certamente di avvicinarsi alla tematica con un piglio da cronista, avvicinandoci agli eventi da un'ottica, per così dire, interna. Non mancano certamente le cadute di tono e le digressioni documentaristiche, ma ci colpiscono i passaggi in cui sembra di udire il tonfo secco dei cannoni spara lacrimogeni della polizia, di vedere la fuga disordinata dei manifestanti e di sentire l'odore acre che lentamente avvolge la città.
Buchenwald. Il bosco del silenzioDalle fotografie di Nino Romeo dei resti del campo di Buchenwald appaiono quasi come i reperti di un sito archeologico; i visitatori, come drappelli di turisti durante una visita a Pompei fuori stagione. Anticipando una visione che il progressivo ineluttabile allontanamento delle future generazioni dalle testimonianze dirette di quell’epoca storica potrebbe rendere sempre più probabile, l’azione espositiva sottolinea l’esigenza vitale di non spegnere in noi e nei nostri discendenti il bruciore vivo del dolore e della vergogna, con i quali l’olocausto ha marchiato una intera civiltà. A memoria di tutte le stragi di massa e pulizie etniche a cui ancora oggi siamo spettatori inermi, una politica internazionale incapace di intervenire nel vanificare le ragioni che le determinano. “La dimensione di bosco è [...] quella che colpisce maggiormente a prima vista il visitatore dell’area nella quale si trova il campo di concentramento di Buchenwald. Il bosco si è ripreso gran parte di ciò che solo una cinquantina d’anni fa l’uomo aveva riordinato secondo un proprio disegno lucido e manageriale. Il bosco ha inghiottito buona parte del tracciato ferroviario che collegava il campo alla città vicina e al resto del paese e sul quale viaggiavano in vagoni piombati gli individui prescelti per finire in quel bosco. La regione nella quale il bosco si trova è, appunto, verde e serena. La città vicino alla quale fu costruito, Weimar, è luogo di testimonianza di grandi intelletti, che tuttora comunica, nella sua bellezza tranquilla e misurata, il trionfo della parte migliore dell’uomo. Proprio lì accanto, il teatro della parte peggiore. A differenza di Auschwitz, luogo anche paesaggisticamente assai dissimile, che conserva un involucro preciso e strutture edificate in mattoni e muratura, oltre alle baracche degli internati, Buchenwald è più un’area nella quale proiettare il proprio immaginario del campo, attraverso ciò che ne rimane (il cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”), il piccolo edificio con le celle dove erano rinchiusi e torturati i prigionieri che si macchiavano di crimini particolari, l’ambulatorio degli esperimenti medici, le strutture destinate a caserme per gli ufficiali nazisti, la baracca superstite, prima smantellata e poi ricostruita, ma soprattutto attraverso la luce e il silenzio che dominano la distesa, scandita dai ceppi (“Block 45”, …), in fondo alla quale si trova il fabbricato dei forni crematori. All’interno, i macchinari metallici, qualche fiore, le mattonelle bianche ancora smaltate, e il silenzio dei visitatori che scendono agli inferi e si sentono venire incontro le presenze mute e urlanti di chi in questo luogo ha trascorso e finito i propri giorni. A Buchenwald, qualche anno fa, in occasione delle manifestazioni per Weimar capitale europea della cultura, è stata allestita un’esposizione, all’interno di alcune sale dell’edificio che si trova all’ingresso dell’area, nella quale, con semplicità toccante, erano sistemate alcune decine di bauli, di quelli che si usavano un tempo per viaggiare, ruvidi, non vezzosi. All’interno di questi bauli, una foto o alcuni fogli e un lettore CD. Il visitatore poteva, attraverso il CD, ascoltare le testimonianze di persone che a Buchenwald avevano vissuto. Buchenwald ha avuto, dopo l’epoca nazista, un’utilizzazione anche come campo di prigionia del regime comunista. Qui sono vissute e morte altre persone. Il museo allestito nell’edificio costruito dall’amministrazione carceraria della DDR dà conto di tutte e due le vite del campo e riesce, attraverso gli oggetti minimi ritrovati, a volte prodigiosamente nascosti dai prigionieri, a far sentire straordinariamente vicina, per quanto possibile, la loro vicenda umana. Il silenzio domina e riempie l’assenza, la visione del verde cupo e come consapevole del bosco che è ritornato padrone, le pietre sbiancate e morte, le grida di qualche uccello. Un percorso integrato nello spirito di riflessione ulteriore attraverso le foto di un trauma sul vortice nazista e sulla follia dell’uomo. Le immagini sono state realizzate con pellicola fotografica, stampe acquisite senza interventi digitali.
Nelle Lettere dalla Kirghisia, Silvano Agosti racconta la sua visita in un paese straordinario “ dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un'utopia, ma un bene reale e comune”. Nel paese di Kirghisia tutti lavorano solo 3 ore al giorno: il resto del tempo è dedicato a se stessi, all’amore, alla famiglia, ai figli, alla vita insomma. Si lavora meglio, non ci si ammala di ansia e stress, si è sereni e realizzati e quindi più produttivi. Gli anziani hanno ingresso privilegiato e gratuito a cinema e teatri, non pagano i trasporti, e inoltre hanno piccoli appezzamenti di terreno da curare. I bambini non stanno seduti in aule chiuse, ma giocano nei parchi, e imparano in maniera naturale, e duratura, perché lo desiderano. E chi vuole fare l’amore, porta in bella vista un piccolo fiore azzurro: così l’amore non genera ipocrisia, incomprensioni e imbarazzi. Non ci sono guerre, né armi: non ci sono politici falsi e strapagati ma opere di volontariato: non c’è pubblicità ma informazione. Nel paese di Kirghisia non c’è bisogno di scrivere la costituzione perché tutti la sanno a memoria. E’ composta di una sola frase: " Al centro di ogni iniziativa, l'attenzione dello Stato e dei cittadini va innanzitutto all'essere umano”. Dal paese di Kirghisia Silvano Agosti invia lettere di una semplicità disarmante e stupefacente, che ci mettono di fronte all’assurdità del nostro vivere, viziato dalla corsa contro il tempo, e soffocato dai ritmi del lavoro che ci priva della nostra esistenza e della nostra umanità. Lettere dalla Kirghisia è un sogno, meraviglioso perché elementare, di chi ha capito che l’essere umano è il più prezioso dei capolavori. Su questa consapevolezza si può iniziare a costruire un mondo migliore, a misura d’uomo. Con rispetto e tanto buon senso. Un libro di poche pagine, che si legge in un soffio e per giorni riempie il cuore di immaginazione e speranza.
Il giorno 25 gennaio 2007, alle ore 18, la Fondazione D’Ars-Oscar Signorini onlus ha organizzato, con il Patrocinio del Comune di Milano e in collaborazione con la Libreria Internazionale Hoepli, l’incontro con il poeta Luciano Erba che ha presentato la recente raccolta Remi in barca, Lo Specchio, Mondadori, 2006. Ha introdotto la serata Gio Ferri, poeta, saggista, grafico, autore di Assedio della poesia,1998; Inventa lengua, Marsilio,1999; Le Palais de Tokio, 2004; L’assassinio del poeta (vol. I, II), 2004-2005; e condirettore di “Testuale”. Remi in barca raccoglie un primo gruppo di poesie, sotto il titolo Westminster, inedite o edite con varianti, dedicate all’attesa, quindi un secondo gruppo, dal titolo l’Altra metà che riprende i testi pubblicati presso San Marco dei Giustiniani e a conclusione una scelta di poesie giovanili inedite, intitolata In limine. Gio Ferri ha sottolineato come nei testi di Erba primeggi un’idea di dinamismo: ” La vita è veloce, in fuga perpetua, si passa da dimenticanza in dimenticanza, cancellando memorie: la poesia segue e precede la vita ma ne è anche il principio, il fondamento. La fuga non va al nulla ma, di fuga in fuga, procede verso una nuova metamorfosi: è un poema interminabile, inarrestabile.” Il titolo Remi in barca, non allude così ad una rinuncia ma ad un altro viaggio vissuto in un tempo di pausa, favorevole ai ricordi, con l’emozione trattenuta di chi guarda in silenzio. Gio Ferri ha evidenziato come il poeta, abbandonando certe ironie, amarezze, tipiche soprattutto della fase giovanile, documentata da In limine, abbia acquisito una nuova misura di maturità poetica e umana. La poesia di Erba è poesia minimale perché c’è, in essa, un ridursi ai minimi di percezione. Con il minimalismo, arte del cavare, avviene l’immersione nelle regioni del silenzio: il minimalismo diventa la primigenia semente del tutto dove, scavando l’abisso del nulla, si può misurare la propria capacità d’affrontare il rischio di vivere. Dopo la lettura da parte dell’autore di una scelta di poesie è seguito l’intervento di Stefano Agosti che ha sottolineato come sia evidente un rinnovamento nella poesia di Erba: le sue immagini si sono così rarefatte da raggiungere una totale sovradeterminazione degli oggetti, nel senso di un eccesso di pienezza vitale. Ogni oggetto è, cioè, sovradeterminato, presenta nodi di senso, di significazioni, di stratificazioni personali. Dopo la lettura di Scale: ” Scale / che non portano da nessuna parte / scale / che salgono soltanto per scendere / è difficile orientarsi / nei dintorni del nulla.” Marco Forti ha interpellato il poeta sul nulla, sottolineando come la sua poesia tuttavia apra, continuamente, nuove porte. Erba ha citato allora il senso del mistero: “ L’idea del mistero è già un momento religioso e di umiltà, e io cerco subliminalmente di coglierlo attraverso la parola.” Il pubblico che affollava la sala ha sottolineato con ripetuti applausi le letture e gli interventi. Erano presenti personaggi di spicco della cultura letteraria milanese. Silvia Venuti
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