Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Martedì 26 giugno si è tenuto alla Triennale di Milano l’ultimo dei sei incontri curati da Philippe Daverio, “ Daverio e contemporaneamente”, svoltisi tra Roma e Milano, il cui scopo era quello di discutere sul futuro e sul presente dell’arte contemporanea, coinvolgendo anche utenti che non sono operatori del settore.
L’incontro di martedì, intitolato “ Non comprate l’arte, rubatela!”, si è svolto nella rilassante cornice del giardino della Triennale, tra le mucche della cow parade, messe all’asta per beneficenza il giorno prima, e prendeva le mosse dall’idea di poter scovare artisti di talento prima che speculazioni legate alla moda ne facciano lievitare il prezzo di mercato, rendendone le opere inaccessibili ai più.
La conversazione si è vivacemente articolata tra Daverio e i suoi ospiti, Angela Vattese, storica e critica, Gino di Maggio, storico promotore di una delle ultime avanguardie, Fluxus, e Jean Jacques Label, artista e critico.
Si è partiti dalla domanda se sia sensato per il futuro investire capitali nell’arte; questo dato di partenza ha subito fatto nascere un altro quesito: l’arte deve essere passione o speculazione?
Gino di Maggio, data la sua esperienza, ha subito fatto notare come sia stato facile, in tempi non remoti, acquistare pezzi d’arte contemporanea a prezzi modici, che poi sono lievitati con gli anni, dimostrandosi lungimiranti investimenti. Questo meccanismo si basa su una delle grandi bugie delle quali si nutre il mercato dell’arte, e ciò sul fatto che ci sia una correlazione tra il valore commerciale e quello artistico di un’opera. Sempre più spesso vengono attribuiti elevati valori commerciali ad opere che, artisticamente parlando, non valgono nulla, intendendo con la parola “artisticamente” la capacità di un’opera di smuovere e sconvolgere il nostro intimo, la nostra emotività; questa, secondo Label, è l’unica cosa umana che rimane all’arte, e in genere alla vita, in questo nostro mondo capitalista. Se l’arte perde questa sua capacità di smuovere l’animo umano, l’unica via che le rimane per emergere è affidarsi alla moda.
Se è vero che le altre arti, come la letteratura, la musica e la poesia sono morte, come viene dichiarato da molti, allora l’unica arte che sopravvive è l’arte visiva, anche grazie alle nuove possibilità tecnologiche che la rendono spesso un mix di grafica, fotografia e anche produzione video.
L’arte è diventata con gli anni un bene di lusso, per legittimare un mercato che si sta sviluppando in questa direzione in maniera sempre più fiorente; ma l’artista non dovrebbe essere tale solo perché vende molto. Già Leonardo da Vinci, cinquecento anni fa, affermò che la pittura è cosa mentale, e se non è tale allora non è arte, ma solo merce. Ne consegue che teoricamente l’arte non dovrebbe avere niente a che fare né con la moda né con il mercato, anche se questo non sembra ancora possibile nel nostro sistema capitalista, in cui abbiamo esempi di uomini che avendo il controllo di uno dei più importanti musei al mondo e allo stesso tempo di una delle più prestigiose case d’asta, si trovano pertanto nella condizione di poter tranquillamente comprare opere di artisti sconosciuti a prezzi stracciati, esporle nel proprio museo per farne aumentare le quotazioni, e infine batterle all’asta a prezzi vertiginosi …se non è speculazione questa!
La conclusione a cui si è arrivati alla fine di questo vivace e intelligente scambio di opinioni è questa: al di là di tutte le mode e di tutte le speculazioni, se rubare l’arte vuol dire riconoscere un valore in un’opera e andarselo a prendere, cioè fruirlo, allora questo è un buon modo per incrementare il settore artistico, ma questo valore riconosciuto deve essere rivolto alle idee di cui l’opera si fa portatrice, e non all’oggetto in sé.
Il cielo di Hounslow, sobborgo periferico a ovest di Londra, ha un colore cupo, senza profondità: sembra respingere le preghiere, costringendole grevi a rotolare verso il basso, verso il deserto di cemento della metropoli. E' il cielo d'acciaio di Hardjit, Amit, Ravi e Jas, banda di "rudeboy" figli, o figli dei figli, di immigrati indiani in Gran Bretagna. La loro storia è la storia di Londonstani, romanzo che è diventato un caso letterario in Inghilterra. A raccontare le vicende di questo firmamento senza stelle, di questo vuoto riempito soltanto dal frastuono degli aerei che atterrano sulle piste della vicina Heathrow, è la giovane penna di Gautam Malkani, trentenne giornalista del Financial Times e promettente scrittore alla sua opera prima. Gautam ricorda di essere rimasto impressionato, ai tempi dell'università, da "quanti ragazzi si definissero londonstani. I'm a londonstani, I'm a londonstani, ripetevano. Cioè, non sono né indiano né British, sono fiero di essere un londinese". Quando i giornali, cavalcando la temibile tigre dell'11 settembre, presero a dare un'accezione negativa alla parola, legata al fondamentalismo islamico, Malkani decise che era tempo di fissare il significato del termine mettendolo per iscritto, attraverso un romanzo. Il risultato di questa pulsione è, appunto, Londonstani. Al di di là del tema dell'integrazione etnica, della contrapposizione tra i rudeboys indiani da una parte ed i coconut bianchi dall'altra, delle schermaglie tra gli stessi ragazzi desi e le altre minoranze, come pakistani e neri, è sorprendentemente il discorso più squisitamente linguistico a spiazzare il lettore: da subito vi è una tale esplosione di gergalità, sconcezze semantiche, labirinti lessicali da "ghetto" che non si può evitare di considerare il linguaggio usato da Malkani quasi una neo-lingua. Per costruire questo strumento espressivo, il giovane scrittore ha attinto alle interviste effettuate durante il suo lavoro di tesi per l'università, una ricerca sui modelli di mascolinità e etnicità a Hounslow. Il risultato è certo sconcertante per gli accademici, tanto da richiedere un glossario a fine volume, ma sorprendentemente capace di evocare una realtà che si situa a metà tra una segregazione volontaria e un'emarginazione reale. Le figure dei ragazzi della banda di Hounslow si stagliano attraverso questi lampi linguistici, andando a riempire uno scenario periferico osservato con la coda dell'occhio, sfondo quasi invisibile di vicende costruite per apparire emblematiche. Il risultato finale ha un suo fascino grezzo, incompiuto: non un nuovo "Trainspotting", come qualcuno ha suggerito, ma un epopea desi in salsa gangsta-rap, un racconto sulle contraddizioni del melting-pot, un processo che non può dirsi mai definitivamente concluso, nel suo ondivago mutare da una generazione all'altra.
MALKANI GAUTAM
LONDONSTANI
Editore: GUANDA
Pubblicazione: 06/2007
Numero di pagine: 343
Prezzo: € 16,00
EAN: 9788882469627
I libri di Barbapapà, recentemente ristampati dall'edizioni Il battello a vapore, sono considerati una delle prime opere portatrici di messaggi ecologisti. Barbapaè nacque dalla fantasia di due autori, l'architetto e designer francese Annette Tison e il professore di matematica e biologia americano Talus Taylor, marito e moglie, che all'epoca risedevano a Parigi. La loro creazione - avvenuta piuttosto casualmente in un bistrò parigino - viene fatta risalire al 1969, ovvero sull'onda del maggio francese che scosse le coscienze giovanili di un'intera generazione. Le serie a fumetti furono pubblicate dapprima in Francia ed in seguito tradotte in tutto il mondo. Una curiosità, il nome del protagonista deriva dall'espressione francese "Barbe à papa", che significa zucchero filato. Qui trovate tutti i libri di Barbapapà e famiglia
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