“Solo lettere, lettere sul soffitto, lettere bianche che strisciano lente su uno sfondo nero. Cominciarono ad apparirmi la notte, dopo uno dei miei soliti attacchi di cuore. Potevo spostarle lungo il soffitto, quelle lettere, allinearle a formare parole e frasi. E al mattino non mi restava altro che annotarle nella memoria del computer.” Rubén Gallego nasce nel 1968, insieme al fratello gemello, in una prestigiosa clinica riservata ai quadri del partito comunista (il nonno è il segretario del Partito Comunista spagnolo in esilio). Il gemello non sopravvive al parto. Rubén sì, ma affetto da paralisi cerebrale, che, pur non toccando minimamente le funzioni del suo cervello, lo rende gravemente handicappato: il suo corpo è, ad eccezione di due dita, completamente inerte.
L’
autobiografia di
Rubén Gallego narra dell’infanzia e dell’adolescenza tra un orfanotrofio e l’altro, insieme ad altri bambini che, come lui, hanno la colpa di non incarnare il mito dell’”uomo nuovo”: forte e dall’inevitabile futuro radioso e di successo.
Rubén, sottratto alla madre (alla quale si dice che anche il secondo gemello sia morto), ci racconta le vicende sue e dei suoi compagni di sventura in questi campi di concentramento mascherati da ospedali, con medici, pedagoghi e inservienti al posto degli aguzzini (“
Alla lezione di storia espongo baldanzoso gli orrori dei campi di concentramento nazisti”). Ma il loro ruolo è lo stesso: per andare in bagno la notte Rubén striscia letteralmente fino ai gabinetti attraversando corridoi gelati; è considerato, in quanto figlio di una spagnola e di un venezuelano, “un figlio di una troia di una negra”, e si sente in colpa perché a undici anni pesa già ben quasi diciassette chili, e le inservienti fanno fatica a sollevarlo…
Al compimento del diciottesimo anno di vita, e per i quattro anni successivi, Rubén passa dagli orfanotrofi agli ospizi, dove chi non merita di vivere viene spedito al piano dei moribondi, che stia bene o male non importa, la vita dipende solo ed esclusivamente dal budget a disposizione dell’ospizio. Riesce a fuggire nei primi anni novanta grazie al momento di confusione e spaesamento dovuti alla perestrojka e, dopo un avventuroso viaggio in un furgoncino, ritrova la madre, a Praga. Si sposa due volte, ha due figlie. La notte ricorda la sua passata esistenza da eroe (“Se non hai le braccia o le gambe, o sei un eroe o sei morto. … Io sono un eroe. Non ho altra scelta”) e di giorno la trascrive, con due dita e un portatile.
Questo è un libro che tutti dovremmo leggere. È un libro fondamentale: è come
SE QUESTO È UN UOMO, come
GREAT EXPECTATIONS, come
THÉRÈSE RAQUIN, come
GUERRA E PACE, e così via. È un colpo duro e necessario: è la scoperta di come tra mille sofferenze i bambini trovino comunque giustificazione verso gli aguzzini e colpa a se stessi, e, nonostante tutto, non perdano un certo fondo di candore e ottimismo.
Lo renderei obbligatorio nelle scuole, per tutti i nostri ragazzini coccolati, viziati e vezzeggiati, e nelle case, per tutti noi protetti dalle nostre mura, dai nostri agi e il nostro nascondere alla vista tutto ciò che è spiacevole. Perché la vita, l’infanzia, sono anche quello che ha vissuto Rubén Gallego. E per fortuna c’è chi, come lui, è sopravvissuto a tutto questo.
Gallego Rubén
BIANCO SU NERO
ADELPHI
04-2004
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