Nella recente raccolta poetica di
Cesare Viviani,
Credere all’invisibile,
Einaudi,
2009, vincitrice del
Premio Alessandro Tassoni e del
Premio Pen 2009, si coglie con immediatezza, attraverso la parola, l’andante musicale del sentire fattosi pensiero. E’ come un flusso lieve che trapassa dall’emozione allo sguardo, testimone della mente, traducendosi in suono e verbo. L’io, nella riflessione, si confida a se stesso con voce da diario, condividendo, in tono familiare, la qualità della"consapevolezza e dell’esperienza. E da subito, dal primo testo, c’è un riconoscimento, nella percezione:
"Ogni bagliore è luce dell’eterno, / è riflesso divino" che dilata il personale vissuto a logica universale. Ed è continuo il confronto-raffronto tra il movimento, il contigente e l’eterno e il loro coesistere che induce, a volte, il poeta alla parola profetica, quando è così profonda la coscienza del limite esperito:
"e il più che si può dire per avvicinarsi / alla vicenda umana / è che si vedono branchi di animali / ben addomesticati, ben custoditi." Ma aggiunge:
"E quanto non viene detto, il segreto, / non è frutto di gelosia o di paura, / ma è l’unica possibilità / di uscire dal destino umano, / che è quello di essere finiti, / finiti”. Così l’accettazione delle leggi naturali, l’abbandono ad esse diventa il compimento del più nobile destino:
"Eguagliare la natura, essere / eguagliati da essa. / Non c’è migliore augurio, / più alto valore.” e l’amore del movimento, unica via per amare l’eterno. Nella contraddizione, nella coincidenza dei contrari, si manifesta il mistero della vita. E il poeta si interroga su di esso, per definirlo o negarlo:
"E se l’incomprensibile / fosse l’immaginazione?" Ma la verità del dolore permane indicibile, inspiegabile, inconsolabile nella tensione tra visibile e invisibile, esistente e inesistente. La parola del poeta, volta alla sintesi, comunica con umile semplicità la sua accorata consapevolezza.
"Non sente niente Colui che dà la vita, / non può sentire, / e noi a domandare, a chiedere, / a inventare storie a cui credere (…) per ritrovarci poi alla fine / a mendicare vicini”. Tutta la scrittura, che poggia sul discrimine vita-morte, è attraversata dal dolore della perdita, dalla limpida percezione della tragedia:
"Qui non si tratta di raggiungere / la verità o di svelare la menzogna / qui si tratta di vedere / uno dopo l’altro tutti cadere." e insieme dalla domanda di una ben precisa scelta
"Ora sta a noi decidere / se invocare l’infinito o respingerlo." A fronte del mistero della vita, espresso da una trama di forze incomprensibili e invisibili, il senso della morte incombe sul transeunte e
"Una tomba priva di forze sarà / la più giusta dimora, / così come le rovine sono / riscaldate e approvate da innumerevoli / passaggi del sole". Lieve come una brezza mattutina la voce del rimpianto:
"Eppure, quando cominciarono a formarsi, / avevamo puntato tanto sui sentimenti, / come se con loro potesse inaugurarsi / un mondo". Ma per reazione c’è il riconoscimento di un potere, quello dell’immaginazione che è azione nell’incommensurabile; al contempo la denuncia delle illusioni avviene con sguardo pietoso, senza cinismo. La voce sapienziale del poeta giunge dall’interno, dall’intimo, non è sovrastante, il tono è fraterno e solidale. Negli spazi dell’attesa nascono spazi liberi e lì si riconoscono i sentimenti:
"Di tanti innumerevoli valori / fossimo tutti concordi nel credere / che il massimo è il respiro". E affiora all’improvviso anche l’umanizzazione del divino, per farlo partecipe, in un tentativo di conciliazione tra limite e illimitato, tra finito e infinito:
"Dio che tremava / per aver creato l’assoluto inganno, / l’infinito, / che è, è / senza fine". Il poeta parla con se stesso e agli altri: presenta la concreta esperienza come unica verità attendibile.
La dimensione del divino, ancora, si apre attraverso l’espressione di un dolore incommensurabile:
"E’ che non si può più ricordare quel dolore, / è immemorabile, / e ogni gesto esce dalla memoria, passato, / solo la fantasia rimane, il punto di felicità / di vedere l’Onnipotente tutto preso / a coltivare il suo campo e il suo grano".
E si presenta la percezione netta dell’invisibile che guida costantemente la vita individuale. Credere dunque in esso. Credere all’invisibile. E nell’interrogarsi sulla realtà e verità del dolore accostarsi, inevitabilmente, alla dimensione metafisica rintracciabile nella natura che risulta espressione primaria, fonte di ogni autentico linguaggio. Cercare nella natura la 'prima' verità del dire mentre la vita compiuta appare come un’illusione all’interno di un sogno impersonale. Questa drammatica consapevolezza è sempre espressa in tono equilibrato e dimesso. Nel distacco da sé si avvera l’unica libertà
"Ma credere / è guardare le stelle, il loro / intermittente lucore. / Da esse siamo nati, muti. / E’ questa l’unica libertà da noi."
Nella natura, nell’umile accettazione delle sue regole si sospende ogni giudizio ma permane costante il confronto tra consapevolezza e sentimento che a fatica tracima oltre la pacatezza controllata del dire.